È facile lasciarsi trasportare dalle emozioni. A volte ci basta affezionarci ad una canzone per convincerci di conoscerne personalmente l'autore, considerandolo alla stregua di un membro di famiglia. Ci scagliamo così contro chi lo denigra e c'infuriamo anche con i detrattori più pacati e ragionevoli, rifiutando e attaccando ogni tentativo, persino lecito, di critica o perplessità. Nel mondo del progressive (si veda, ad esempio, la santificazione del geniale, ma pur sempre umano, Peter Gabriel, avvenuta perlopiù in suolo italico), come in ogni altro campo purtroppo, il fanatismo è una piaga estesa che sopprime ogni confronto e scambio di pensiero per difendere un'idolatria assoluta e priva di qualsiasi fondamento.

Ciò che io voglio fare oggi è esattamente l'opposto. Mi sento in dovere di mettervi in guardia dalle ingannevoli parole pronunciate più volte dai gentiluomini che prima hanno dato alla luce un essere speciale come "Boris" e poi l'hanno rinnegato in favore di un babbuino innalzato a figura di culto. Mi rendo conto che queste parole, lasciate a loro stesse, non acquistano molto senso, perciò permettetemi di chiarirvi le idee, narrandovi quest'intricata storia dal proprio, lontano, principio.

Nel tardo 1973 a Portage, in Indiana, dei ragazzi erano intenti a sfogliare febbrilmente un dizionario, nella speranza d'incontrare con lo sguardo un termine abbastanza interessante da poter degnamente rappresentare la loro band, non ancora battezzata. La scelta ricadde sull'unione di una provincia iraniana (Yazd) con una turca (Sanliurfa) e così nacquero gli Yezda Urfa, gruppo progressive dal prominente eclettismo che, pur facendo tesoro delle felici intuizioni di realtà inglesi come Yes e Gentle Giant, riuscì, in un ambiente ed un periodo a dir poco proibitivi, a coltivare una sonorità praticamente unica e ben distante dagli accenti derivativi che così spesso hanno caratterizzato gli slanci artistici dei complessi prog statunitensi.

Dopo circa un anno, speso a comporre, provare e rifinire una buona dose di materiale, il quintetto decise di recarsi alla Universal Recording di Chicago allo scopo di registrare un demo che sarebbe stato in seguito distribuito tra le case discografiche e le stazioni radio, nella speranza che potesse essere notato e preso in considerazione, così da fornire un eventuale contratto ai suoi giovani autori. Il progetto, neanche a dirlo, fallì miseramente e molte copie della registrazione furono immediatamente rispedite al mittente, insieme a lettere di rifiuto adornate da squallide scuse e patetiche  motivazioni (alcuni produttori, particolarmente analfabetizzati, non ebbero neppure la decenza di scrivere correttamente il nome del gruppo).

Per quanto il valore commerciale di quest'opera possa essere stato stimato come nullo dagli esperti del settore, la sua levatura creativa e musicale è inversamente proporzionale alla prima considerazione, grazie a composizioni articolate e camaleontiche, che sfrecciano con disinvoltura attraverso ambientazioni folkeggianti, illuminate dalla voce androgina di Rick Rodenbaugh e travolte da cariche combinate di chitarra e sintetizzatore ("Boris and His 3 Verses, Including Flow Guides Aren't My Bag"), schegge country spadroneggiate da scorrerie di banjo e mandolino ("Texas Armadillo") e romantiche scene dal gusto cavalleresco, dipinte dalle incantevoli pennellate pianistiche di Phil Kimbrough, all'occorrenza impegnato in nostalgiche ballate in compagnia della chitarra di Mark Tippins ("3, Almost 4, 6 Yea"). Dopo degli aggraziati duetti vocali, Brad Christoff prende l'iniziativa e comincia a turbinare sulla batteria, lasciando i compagni musicisti a destreggiarsi tra imprevedibili e tempestose sferzate, appoggiate dalle tastiere ("To-Ta in the Moya") e seguite dagli echi cavernosi del basso di Marc Miller, ammaliato dalle leggiadre danze del flauto ("Three Tons of Fresh Thyroid Glands").

Nella ristampa in CD (realizzata nel 2004, ben 29 anni dopo l'originale) trova spazio un prescindibile ma interessante episodio, caratterizzato dai soliti ritmi deliziosamente incomprensibili, una qualità audio leggermente inferiore alla media ed una tecnica vocale che, a tratti, rimanda spudoratamente ai "giganteschi" fratelli Shulman ("The Basis of Dubenglazy While Dirk Does the Dance"). Questo pezzo può infatti essere considerato come un ponte tra il magnifico album appena descritto ed il seguente "Sacred Baboon"; quest'ultimo inspiegabilmente osannato dagli stessi Yezda, i quali, un anno dopo lo sfortunato esordio, forse pensando di rendere la propria proposta maggiormente accessibile al grande pubblico, distrussero il loro personalissimo stile semi-acustico e riproposero gran parte dei lavori registrati in precedenza, attingendo a piene mani dal suono, ormai consolidato, di altre formazioni d'oltreoceano.

Nacque così un babbuino che di sacro non aveva proprio niente, a partire dalla voce di Rick, opaca e incerta, passando poi per il basso di Marc, sottratto direttamente dalle mani di Chris Squire, fino a raggiungere i numerosi intrecci vocali, inseriti un po' ovunque e fortemente debitori dell'esperienza dei Giant di "Knots" e "On Reflection". A dispetto di ciò, non dimentichiamoci comunque che parliamo di un disco piuttosto valido, ma assolutamente incapace di raggiungere l'illuminato fratello Boris nelle celestiali vette di quell'Olimpo progressivo, che il nostro altezzoso primate ha ingenuamente creduto di poter scalare, spacciandosi per ispirato compositore inglese.

Carico i commenti...  con calma