Il Jazz coreano ha una sola, indiscussa regina: il suo nome è Youn Sun Nah. Ed è una carriera strana, la sua, cominciata tardi per una cantante (a 23 anni: prima lavorava per una casa di moda), intrapresa quasi per divertimento, e proseguita nell'ombra, lontano dai clamori, alla costante ricerca di personalissime forme espressive. In tutta franchezza, credo di essere la terza o la quarta persona in assoluto a parlare di lei in Italia: da noi il Jazz dell'Estremo Oriente (Giappone a parte, magari) è spesso e volentieri un oggetto misterioso; e la Nostra non fa eccezione, se è vero che solo all'uscita del suo settimo album ci si è accorti (si fa per dire) di lei.
E' una signora molto discreta e riservata, questa sud-coreana (ma francese d'adozione) nata a Seul nel 1969, che ama cantare "al buio" (in tutti i sensi, date un'occhiata ai suoi concerti) e predilige soluzioni strumentali ardite, singolari, ai limiti del minimalismo più essenziale: figlia di una cantante d'opera, ha cominciato con l'Orchestra Sinfonica Nazionale per poi passare, negli anni, a sempre più ristretti combo Jazz e arrivare, nei tempi più recenti, ad esibirsi in scena in totale solitudine, rileggendo standard come "My Favorite Things" col solo accompagnamento di una kalimba. E ad interpretare pezzi apparentemente lontanissimi dalla sensibilità di un jazzista (ascoltare la sua versione di "Enter Sandman": si, proprio l'arcinoto brano dei Metallica, rivisitato in chiave acustica). Il suo stile non trova termini di confronto immediati: è una vocalità che sa essere eterea e sensuale al tempo stesso, a tratti "lunare" ed impalpabile, ma capace di slanci improvvisi e acuti da capogiro, specie quando si cimenta con il vocalese e lo scat, tecniche nelle quali Nah è maestra. Come le grandi interpreti del genere, usa la voce alla maniera di uno strumento, esercitando su di essa un controllo totale, ed evidenziando un'invidiabile padronanza di registri diversi; circondata da un fascino sfuggente e misterioso, sa catturare il pubblico dei festival (Montreal e Hong Kong i principali cui ha partecipato) lasciandolo attonito, precipitandolo in un'atmosfera di irreale e dolcissima sospensione. Se non credete a me, credete a "Le Monde", che l'ha definita "una magnifica creatura notturna, in possesso di una voce prossima all'ideale di pefezione".
Come non trovare irresistibili gli accenti marcatamente "bluesy" della sua (magistrale) interpretazione di "Jockey Full Of Bourbon", fra i momenti migliori del qui presente "Voyage" (suo penultimo lavoro, datato 2009)? Cantare il Tom Waits di "Rain Dogs" rinunciando totalmente al registro "sporco" e già di per sé testimonianza di una personalità artistica forte, di un'indole aliena dalle convenzioni e dagli stereotipi di sorta (analogamente, Nah si era già cimentata con lo Sting di "Consider Me Gone" senza lasciarsi tentare dai toni acuti). Modesto l'accompagnamento strumentale prescelto: c'è la chitarra di Ulf Wakenius, jazzista svedese che ha lavorato anche con Pat Metheny, ci sono brevi inserti di violoncello e fisarmonica, ci sono percussioni dal sapore caraibico; ci sono, infine, le contorsioni di un contrabbasso intenso e profondo, che da solo sostiene i taglienti sospiri di Nah in "Calypso Blues", l'"evergreen" a firma Nat King Cole che è l'altra gemma assoluta dell'album: qui la voce è intrigante, passionale, sinuosa come le onde dell'oceano cantate nel testo. In "Frevo", del compositore brasiliano Egberto Gismonti, emerge invece la vena più vivace e istrionica della cantante, che regala momenti di pura eccitazione cimentandosi in un unisono d'alta scuola con la chitarra acustica: si sale e si scende su progressioni formidabili, toccando vertici altissimi e dando prova di sorprendente velocità; un puro esercizio vocale, si direbbe, una spassionata prova di bravura in cui mestiere e virtuosismo sopravanzano il sentimento; viceversa, tanta è la passione, tanta l'intensità messa nella performance dalla Nostra, che non ci si annoia nemmeno durante i cinque minuti di un simile episodio "tecnico". Curiosa, ma non c'è da stupirsi vista la caratura (e la cultura musicale) del personaggio, l'inclusione di "Oh Shenandoah", tradizionale "ballad" americana risalente ai tempi della Guerra di Secessione: spicca la prima parte per sola voce, senza accompagnamento strumentale; da brividi. Ma è tutto il disco che scorre alla perfezione, senza cali o passi falsi (e in un disco del 2009 è cosa molto, molto rara).
Si, esistono ancora artisti del genere, anche se nessuno ne parla... ed è per me un grande piacere presentare a tutti voi questa misconosciuta ed eccezionale artista.
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