Pare che su DeBaser, di questi tempi, faccia tendenza cimentarsi in recensioni di opere semi-sconosciute di artisti "visionari" dell'Estremo Oriente, preferibilmente di genere femminile. E allora, rincariamo la dose con questa: che non riguarda la tanto attesa seconda prova di Okkyung Lee, la geniale violoncellista coreana di casa Tzadik che in molti hanno mostrato di apprezzare, né la misteriosa Wu Fei, campionessa della nuova avanguardia cinese che ho promesso di presentarvi, prima o poi. Prima, se permettete, c'è da rendere omaggio a questa eccentrica e sballata bambola giapponese, frequentatrice (e animatrice) d'eccezione del sottobosco sperimentale "made in N.Y.C.", abituata a dare del tu a gente come Marc Ribot, Arto Lidsay, John Zorn; che guarda caso, da autentico "marpione" qual è, non si è fatto scappare l'occasione di portarla alle proprie dipendenze.

Di cognome fa "Honda", costei, e in effetti è una abituata a correre, ad anticipare le tendenze, ad assimilarle e (sovente) a prendersi gioco di esse, dall'alto di un'invidiabile e personalissima concezione di "elettronica fai-da-te" che ha il dono di mandare in tilt i tradizionalisti più rigorosi; fa tutto "in casa", la Nostra, nel senso che registra in uno studio da sé allestito, e lo fa sorprendentemente bene, ma senza mai prendersi troppo sul serio, senza chiudersi nella classica "campana di vetro" in cui tanti avanguardisti (ma anche pseudo-tali, non di rado) amano autocompiacersi. Non ha paura, lei, di concedersi lunghe pause, di condurre una "carriera" all'insegna dell'irregolarità più estrema (3 album in 10 anni, tanto per intenderci), non le importa di rientrare in catalogazioni di sorta, né di confezionare prodotti eventualmente appetibili per il mercato. I suoi sono piuttosto sfoghi creativi, che non hanno ambizione alcuna di completezza né la pretesa di farsi definire "capolavori": è questa la bellezza unica dell'arte di Yuka: un'arte Pop che si fa beffe dell'impalpabile innaturalezza del Pop artefatto dei nostri tempi, un'arte d'avanguardia ma non un freddo prodotto "di laboratorio", una musica che ha i tratti di una cosa viva, spontanea, (sovra)abbondante di colori e disarticolati scarabocchi, un caleidoscopio di sentieri su cui conviene perdersi, anziché cercare una direzione. Perché forse non lo sa neanche lei, a volte, dove andare a parare: i suoi affreschi sono "impressioni" (più che quadri veri e propri) di incoerenza e irregolarità senza pari.

Ed è bravissima, se vogliamo, anche a sfatare il mito dell'"elettro-artista" come del classico artista che "fa musica senza suonare", un luogo comune di fatto diffuso sin dai tempi del primo Eno "ambientale": è una polistrumentista, quella che ascolterete in "Eucademix" (suo secondo lavoro per la Tzadik, del 2004), che con disinvoltura passa dalle programmazioni tastieristiche al basso, di cui ha appreso i rudimenti dal compagno Sean Lennon, impegnandosi anche in vocalizzi d'accompagnamento; anche se, da questo punto di vista, è più che mai indispensabile il contributo dell'inseparabile Miho Hatori, l'altra metà del progetto "Cibo Matto", voce solista nei pezzi cantati di un disco in prevalenza strumentale; un disco sospeso fra suggestioni "Acid-Rock", umori psichedelici e tecnologia industriale, che si alimenta di sequenzialità e ritmica Hip-Hop come anche della delicatezza di momenti più educatamente "classicheggianti" (vedi il dialogo basso-clavicembalo in "Phantomime"). Per questo è un disco capace di accontentare un ampio ventaglio di ascoltatori, dalla Dance triviale e ossessiva di "I Dream About You" (robotica la voce della Hatori sullo sfondo di frasi campionate in italiano), le movenze etniche di "When The Monkey Kills", la stralunata "sinfonia" di "Humming Song" e l'immancabile tributo alla gastronomia del Bel Paese in "Limoncello" (ritmo alla Kraftwerk e isolate pulsazioni di synth-bass). Passando per il "divertissement" elettronico di "Twirling Batons In My Head", l'intermezzo pianistico di "Seed Of Seed Of Peach" e la chitarra "cosmica" di Marc Ribot in "Spooning With Jacknife" come anche in altri pezzi.

Senza voto: un album solo da ascoltare, non da giudicare: perché tanto, ci potrei giurare, a Yuka non frega nulla di numeri e voti. Ve lo dice uno che non stravede per certa elettronica, ma che non può neanche rimanere indifferente di fronte a cotanto estro creativo. Quello, credetemi, di una delle Musiciste migliori della nostra epoca. Ai tradizionalisti non piacerà, non c'è dubbio, ma i per i "zorniani" aperti all'elettronica è un'occasione da non perdere.

Carico i commenti...  con calma