Dal Libro di Isaia, Vecchio Testamento:

“Negli inferi è precipitato il tuo fasto

e la musica delle tue arpe.

Sotto di te v'è uno strato di marciume,

e tua coltre sono i vermi.

Come mai sei caduto dal cielo,

astro del mattino, figlio dell'aurora?

Come mai sei stato gettato a terra,

signore di popoli?

Eppure tu pensavi nel tuo cuore:

«Salirò in cielo,

sopra le stelle di Dio

innalzerò il mio trono,

dimorerò sul monte dell'assemblea,

nella vera dimora divina.

Salirò sulle regioni superiori delle nubi,

mi farò uguale all'Altissimo».

E invece sei stato precipitato negli inferi,

nelle profondità dell'abisso!”

E se lo spiritual, invece che incontrare il blues, il soul, il jazz o l’R’n’B, avesse attirato con i suoi testi di musica sacra, un genere differente, come il black metal, il djent, il mathcore o l’electronicore?!

Niente Mahalia Jackson, niente Al Green, nessuna Whitney Houston o John Legend, forse, ma sarebbe nato Zeal & Ardor.

2013: Zeal & Ardor é nato! Ave e gloria al nuovo nato!

Qualche anno prima, invece, nel 1989, nasce a Basilea dall’unione di una cantante gospel afro-americana e di un percussionista svizzero, che spaziava dalla salsa al funk, il pargolo “luciferino”: Manuel Gagneux.

Iniziato al pianoforte ed al sassofono, rivolse ben presto le sue attenzioni alla chitarra elettrica e ad ascolti difformi da quelli famigliari (Venom, Slayer, Merciful Fate e a molti gruppi scandinavi, come gli Emperor, Darkthrone o gli Enslaved).

La figura che rende questo “Stranger Fruit” (2018, edizione MVKA Music) un disco da ascoltare, almeno una volta, a differenza del precedente EP “Devil is fine”, è quella leggendaria di Kurt Ballou, fondatore, chitarrista e produttore dei “Converge”, qui chiamato a mixaggio e co-produzione con lo svizzero-americano.

Per questo disco “Zeal & Ardor” si ramifica, non più un uomo solo al comando (Gagneux, appunto, alla voce, chitarra e produzione), ma una vera e propria band (Denix Wagner e Marc Obrist, voci e cori, Tiziano Volante alle chitarre, Mia Rafaela Dieu al basso, Marco Von Allmen alla batteria) che si mette a disposizione delle idee del creatore del fil rouge che unisce Basilea con New York, esplorando gli anelli di congiunzione tra la black music ed il black metal.

Con “Intro” l’ascoltatore medio può già decidere se è disposto o meno ad esplorare questo percorso, perché già con la radiofonica “Gravedigger’s Chant” ci viene immediatamente mostrato un po’ di Hozier (se ne sente tanto in “You Ain’t Coming Back”), un po’ di elettronica modello-Awolnation (ricordi “Sail”?), una batteria tirata indietro, indietro e qualche sferzata di rasoio, fattesi chitarra. Sulla stessa linea, meravigliosamente contaminate, sono “Ship on Fire” e “Stranger Fruit”, traccia omonima dell’album.

L’incontro tra le sacre scritture ed il mathcore arriva tra aperture blues, transizioni di elettronica, screamo, doppio pedale e tempi dispari nelle articolate “We can’t be found” e “Fire of Motion” di “dillingeriana” fattura.

Servants”, che riporta alla mente qualcosa dei “Jesus Lizard”, è forse la traccia emblema di questo melting pot musicale. Stridii di chitarra, piatti jazzati, tom, rullante e kick che ti trafiggono le budella e ti occludono la trachea, voce perfettamente contestualizzata e caratterizzata su parole che strizzano un occhio allo spiritual…

“Now listen here, you can join us

Or you can die in the fire

No way that you're coinless

This is the end of the line

When the servants have their way”

…ed un occhio guarda bene il country di Blake Shelton, per un pubblico di pastori protestanti in protesta, che non vedono l’ora di farsi uscire il sangue dalle orecchie.

Le elefantiache “Don’t you dare” e “Row Row” si contrappongono alle apprezzabili idee, ma ancora leggermente fuori contesto, di “The Hermit”, “The Fool” e “Solve”, tracce ambiance che devono ancora risplendere di luce propria nella fuliggine infernale.

Ci sono chitarre che aprono e chitarre che chiudono. Il rimando immediato è quello a “Time” di Hans Zimmer, mentre in realtà ci conducono dentro un’algida coperta che ci avvolge con un blues brutale, genuinamente addolcito da pillole di pianoforte. Questa é la chiusura di Z&A, con “Built on Ashes”:

“Don't, darling, die on me now

We'll dig this grave close to your home

Don't you fix your eyes on me now

We never said you'd come back home”.

Album sorprendente, con pochissimi difetti, che ripagano l’ascolto, sicuramente non leggero, ma d’altra parte, non è banale il progetto. Non è facile il tentativo di far coniugare l’inquieto con il pacifico, non è sempre possibile far coesistere bene e male, anche notte e giorno hanno bisogno di transizioni temporali per appacificarsi con alba e tramonto ed in questo lavoro Gagneux pare far convivere con il giusto stile, il portatore di luce, Lucifero, e la sua parte angelica di cherubino, Samael.

“Se danzi col diavolo, il diavolo non cambia. E' il diavolo che cambia te.”

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