Mi accingo per la prima volta ad affrontare l'ardua prova della recensione di un album musicale per colmare una grave (a mio giudizio) mancanza: Zibba è ormai una ben più che emergente realtà nel panorama musicale italiano (direi a buon diritto), merita uno spazio anche qui su DeBaser e spero catturerà attraverso le mie parole un minimo di attenzione.

Ciò detto, devo raccontarvi un po' come son venuto a conoscenza di questo simpatico omaccione tutto pane e musica (azzarderei anche un paio di pizze lardo e uovo extra a giudicare dal girovita, ma non perdiamoci in dettagli). Era una calda serata estiva dell'anno 2011 e con la combriccola avevamo pianificato una "tranquilla" serata a base di reggae in quel di Lugano (Sud Sound System, se vi può interessare). Alla fine del trip musicale d'alto borgo, viene invitato sul palco un'individuo solitario armato di sola chitarra acustica. Primo logico pensiero: oddio l'ennesimo cantautoraccio induttore di sterilità irreversibile, per carità. Tuttavia, non essendo il pregiudizio parte del mio bagaglio culturale, lascio aperta una porticina mentale. L'omone la sfonda con la veemenza di un carro armato, abbracciandomi nella carica di due pezzi davvero coivolgenti come "Margherita" e "La fine di un se" (facenti parte del precedente album, "Senza smettere di far rumore", un buon lavoro ma da ascoltare solo dopo essere entrati in confidenza con questo artista mediante il materiale successivo); un lampo, prima di essere costretto a disertare la tribuna direzione Pronto Soccorso (nulla di grave tranquilli, la genitrice ha la pellaccia dura), portando tuttavia con me l'assoluta certezza che quell'idea di musica (e quella voce) avrebbero avuto un futuro nella mia vita.

Biograficamente parlando, gli Zibba & Almalibre nascono ancora sul finire del precedente millennio dall'incontro tra Sergio Vallarino (alias Zibba) ed il batterista Andrea Balestrieri in quel di Genova, città natale di alcuni tra i più grandi eroi (passatemi il termine coscientemente forzato) della canzone d'autore nostrana. E per quanto la geografia non possa certo essere un criterio di qualificazione musicale, sarà proprio dal sottobosco cantautoriale che gli Almalibre prenderanno le mosse: un progetto che nasce proprio dal basso, dal piccolo locale dove stai faccia a faccia con la varietà della vita e del quotidiano, ma che ha insito un germe originale, sostenuto da una convinzione cieca nel valore della musica, dei suoi linguaggi e della sua personalità. Fuori da ogni logica mercantile o prostituzionale. Senza tediarvi sui generis ulteriormente, addentriamoci in questo "una cura per il freddo", datato 2005.

Si apre con "Mahllamore": intro per sax scortato da una batteria minimale in controtempo, lenta, quasi ingolfata, ma che roba è stiamo per esclamare, poi giù la settima e via a cavalcare una ritmica da sagra paesana, sax e violino si alternano con una roca risata nel connotare il clima un po' musicalmente surreale. E qui parte una voce, quella voce, calda e roca, profonda ma fresca e brillante, ad illuminare un testo frivolo o sbarazzino se vogliamo indulgere, molto orientato ai piaceri della "carne rosa" come le tanto auspicate quote parlamentari per essere diretti. La chitarra accompagna incalzante in levare fino al ritornello, il violino fa capolino qua e là come a ricordarci che qui siamo nelle peggiori balere, mica scherzi: cori e chitarra elettrica fanno da sfondo al ritornello, per condire un pezzo dalla struttura semplice, senza pretese, ma che difficilmente si scalzerà dalla vostra testa. Personalmente adoro il finale con assoli in botta e risposta tra sax e violino.

Per la seconda traccia il registro viene stravolto. Questa sarà una caratteristica di tutto il cd, un continuo incrocio di generi e stili musicali saranno la matrice fondamentale dell'album, per affermare l'assoluto primato della musica in tutte le sue declinazioni come come mezzo di comunicazione, come trait d'union culturale, come strumento cognitivo della realtà ma anche molto semplicemente come "arma" per divertirsi e divertire. "Ordine e gioia" risulta così quasi un recitativo, una preghiera sostenuta da un impalpabile pianoforte ed una polvere di violino.

Che ci catapulta sul pianeta di "Una parola illumina", per me un pezzo memorabile, che oscilla tra cadenze jazz, appunti rock e una ritmica smaccatamente reggae (non sono un caso qui gli interventi di Raphael e, nel video ufficiale, di Bunna degli "Africa Unite"): un tripudio di stili che non stona affatto, una specie di miracolo per il mio orecchio bramoso di commistioni di genere. Una canzone più che d'amore, intenta a produrre un collage di sensazioni, di situazioni. Fantastica. Peccato per il finale un po' troppo trascinato.

Quarta traccia, e siamo sempre più smarriti: una armonica disperata apre la "Saga di Antonio", uno xilofono per raccontare la storia di un musicista con "nove figli da sfamare, con nove figlie a testa da sposare" che guarda il mondo con l'occhio critico di chi si sente già dipartito (come sottolinea un passaggio quasi da banda funebre). La voce di Zibba gratta superbamente quasi fosse davvero vecchio ubriacone, coinvolge ed avvolge, potrebbe riempire da sola tutto il brano (peraltro musicalmente molto minimalista ma affatto scontato): una voce che molti non a torto associano a quella di Fred Buscaglione.

"Ammami" è quasi un controcanto del brano d'apertura, triviale al punto giusto o in sovrappiù non importa: intreccio sia di trama che di armonia semplice, ma difficile l'archiviazione radicale nei più oscuri meandri cranici.

E poi "Dauntaun", un qualcosa di sperimentalmente fenomenale: giro blues d'apertura, voce "mentalizzata" come dico io, ossia strutturata più per il dialogo con la propria psiche che per la conversazione, interviene un'anomala batteria che pesta sui tempi deboli con un suono elettronico anni '80, sopra la quale fanno capolino un synth e un sax a rendere il brano una sorta di jam session, poi per il finale un crescendo strumentale si fa scorta di una vera e propria regressione rap sul tema del degrado sociale nei sobborghi metropolitani. Un brano da capire, non facile al primo ascolto, ma più passa il tempo più mi da soddisfazioni, può peccare nella costruzione ma va' letto proprio nell'ottica "jam da strada" per non scadere in superficiali svalutazioni.

Senza farla lunga e per non togliervi il piacere della scoperta vi invito ad andare al esplorare le altre nove tracce del disco, che tra alti e bassi si fanno strumento di un messaggio sincero: ci piace far musica, ci piace farla a modo nostro e abbiamo più fame di conoscenza che di soldi, ci dicono gli Almalibre in questo album, primo passo di una carriera che li porterà a vincere il Premio Bindi nel 2011, il premio Tenco nel 2012 e il premio della critica al Festival di Sanremo nel 2014 per la categoria nuove proposte. Dei ragazzi ne sentirete ancora parlare, ne sono certo, ed in ogni caso io andrò avanti a parlarvene (ma vi parlerò anche d'altro non temete, leggi iniziate a scappare terrorizzati) fino a frantumarvi i distintivi genitali. Ave.

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