L'inizio è quasi impalpabile, subliminale, echi di suoni ancestrali, tambureggianti, sospesi, pregni di un calore soffocante, si entra nel vivo del primo dei quattro capitoli del disco: STAINS AND FILTH IN THE CONVENT AOUEI, irradiato dalla luce di un crepuscolo grondante sangue, crea una tensione sfibrante senza mai rilasciarla, anzi, accumulandola.
Ombre scure e silenti strisciano insinuanti, mutano forma e contorcendosi si stagliano enormi contro quel crepuscolo sanguinolento, brani come "White Track Fire Frost" e "Veil" confluiscono l' uno sull' altro come ombre, si uniscono e si muovono lentamente creando sproporzione e disorintamento, un senso spettrale di minaccia imminente invade tutta questa prima parte, i serpeggianti brandelli di flauto ligneo di "Decoy" fluttuano nel vuoto, quasi echeggiassero in lontananza in balia del vento, fino a sparire e confluire nelle distorsioni strazianti della finale "Yezidi".
Il suono degli Zoviet in quel 1985 è già da diversi anni completamente delineato, il complessissimo lavoro in fase di registrazione fatto di manipolazione di nastri, sovrapposizioni e stratificazioni di ogni tipo di suono (spesso acustico) ha creato un qualcosa di unico, tribale e low-fi, memore degli esperimenti di musique concrete e del dub, per molti aspetti scovolgente, queste canzoni popolari sovietiche, racchiuse in un packaging comprendente box di ceramica lavorato, legno, vari inserti e piume raccolte nella spiaggia nei pressi della centrale nucleare di Sellafield rappresesentano senz'altro la loro più iconica dichiarazione d' intenti.
"добрый день" a fare quasi da prologo alla seconda parte, un turbine devastato di percussioni e flauto vivisezionati da una manipolazione dei nastri tanto sublime quanto terrificante, YEZIDI CIRCLE TRAP può partire, schizoide e tribale si dipana ruvida e anarchica, con brani come "Sein" o "Ma-ja" a condurre un disperato e frenetico rituale primitivista, il finale affidato alla pazzesca "Burning Bush" riporta alle atmosfere spettrali della prima parte, ogni suono viene capovolto e dilatato all' inverosimile fino a che nulla sia più riconoscibile.
BEAK AND SNOUT: i paesaggi spogli e aridi si ammantano di un senso quasi sacrale, la sproporzione ed il disorientamento delle parti precedenti lasciano un senso tragico non più legato a minacce imminenti o carnali esorcismi ritualistici, qui si contempla un vuoto, un' enorme strapiombo, un cielo limpido e stormi d' avvoltoi plananti, "Sidhe Riuben" e "Veil Sloe Semen" irradiano bellezza, una belleza selvatica. "Sheol" è un' altro esempio di questo bellissimo e tremendo sguardo sul vuoto, i suoni si affastellano l' uno sull' altro irriconoscibili, aspri e scheletrici, sempre rigonfi di un' emotività fortemente marcata.
CHARM, l' ultima parte, un'elegia, rituali segreti di civiltà scomparse, fotografie sfocate dalla notte dei tempi, "Chirm Geis" sembra rimbombare in terre prosciugate dal sole e nude rocce, un qualche tipo di stumento a corda trattato intona una melodia circolare tanto semplice quanto straziante mentre un flauto di legno disegna ancestrali traiettorie sonore.
Ogni brano è carico di questo pathos, dalle inquietanti movenze fuori fuoco e ovattate di "Chirm Ela" alla percussività ritualistica di "Charm Aliso" ed al paesaggio immobile e morente di "Shewel". "Yezidi Say"... e questa volta si arriva alla fine, nessun rito di passaggio, nessun fotogramma di vita tribale disperso chissà dove nel tempo, soltanto schiaccianti distorsioni, ciò che potrebbe essere una voce rantola in loop una qualche frase ignota, i clangori e gli stridii metallici sovrastano ogni cosa.
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