Zu zu zu zu ZU. Zum Zum Zum. Zum de Zum. Chiunque abbia avuto un qualunque decente approccio con loro (gli Zu, la band) capirà quanto sia importante il fatto che, tra poco più di un mese - il 20 febbraio per l'esattezza - uscirà il loro nuovo parto discografico, "Carboniferous" (e voi sarete là a comprarlo).
Esce sotto Ipecac, prestigiosa etichetta di Isis, Melvins e qualunque progetto di Mike Patton, evento che testimonia quanto sia ormai consolidata la fama del terzetto a livello pressochè mondiale (oltre 1000 concerti in 4 continenti), soprattutto non in Italia, dove fortunatamente hanno una loro stretta e solida nicchia di fan. Di fan che sanno di condividere con Luca Mai, Jacopo Battaglia e Massimo Pupillo - questi i nomi - qualcosa di più della mera, pura e incondizionata passione musicale. Magari (i fan italiani) sentono anche di avere in comune con loro le radici, le radici di una vita, magari trascorsa in un posto desolante come la periferia marittima di Ostia, con il mare paludoso che va di pari passo con gli edifici ammassati senza molto senso, cemento su cemento. Magari non tutti i fan italiani degli Zu sono cresciuti in questi posti, ma chissà perchè noi italiani giovani abbiamo tutti questa empatia quando si tratta di ambienti semiurbani desolanti e vuoti di prospettive. Magari però gli Zu non hanno mai sentito nessuna empatia del cazzo con nessun italiano o romano periferico o abitante di scenari da luci della centrale elettrica del cazzo, semplicemente perchè il loro discorso musicale è troppo libero, devastante e totale per lasciare spazio a considerazioni del genere.
Batteria, sassofono e basso, amanti del collaborazionismo a tutto tondo (questo disco vede l'apporto variegato di Mike Patton, King Buzzo, Giulio Ragno Favero e Alessandro Rossi), debordanti, dissacranti, ondate laviche di spunti free-jazz contornato di attitudine da ultraviolenza noise e hardcore, vertigine dinamica, distorsione megalitica. Eterna lotta (senza odio, ma con il sorriso sulle labbra insaguinate) tra irregolarità ritmica, totale libertà spaziale/visuale/musicale, e improvviso ordine e regolarità, affinamento degli spigoli tra gli strumenti (l'interplay fra i tre non è mai stato così ormonale e istintivo: sembra di ascoltare le deviazioni di un gigante a sei [ma anche più] braccia). Sono 50 minuti e 11 secondi (dieci più di "Igneo") eppure il tempo diventa un fattore puramente accessorio.
Ciò che viene a crearsi in questo non-luogo atemporale è probabilmente il miglior lavoro sinora partorito dalla band, che pure ci aveva abituato a uscite di qualità notevole. Viscerale, intenso e profondo come non mai. Insieme magnificamente ricco di volontà negativa (la destrutturazione e la distruzione) e positiva (l'attitudine ironica, gli 'scherzi' sonori). Spunti danzerecci (già dal magnifico inizio di Ostia), zorn-rumorosisti (Chtonian, Mimosa Hostilis), addirittura melanconicamente melodici (Obsidian). Si fa spazio anche una certa velleità di costruzione ambientazioni sonore ai limiti dell'impalabilità (Orc).
Se vorrete attendere questo mese e poco più che vi separa dall'uscita del disco, ascoltatemi. Fatelo. Quello che state per ricevere in faccia (nel cervello e sulle orecchie) è una delle cose più meravigliose che possano capitarvi (perlomeno il 20 febbraio). Tutto il resto è rumore. Il resto è Zu.
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