Forse non tutti conoscono "Un po' di Zucchero": si tratta del primo (anzi, primissimo, come spiegherò tra un istante) album di Adelmo Fornaciari, passato sostanzialmente sotto silenzio, tant'è che capita di imbattersi in discografie sugariane che nemmeno lo menzionano (!), preferendo partire direttamente da quella che in realtà è la seconda opera del cantante roncocesino, ossia "Rispetto" (1985).

Siamo nell'ormai lontano 1983, quando nel panorama musicale italiano gli echi degli anni settanta non si sono ancora spenti del tutto (talora, anzi, continuano a risuonare forti), e i tempi non sono ancora maturi per certe sperimentazioni e trasgressioni melodico/armoniche. Parossismi ed esagerazioni adesso sarebbero fuori luogo: meglio rimanere fedeli al linguaggio composto e pacato della tradizione pop italiana. È questo il contesto in cui si inserisce "Un po' di Zucchero", per descrivere il quale è d'obbligo una puntualizzazione preliminare: non aspettatevi il "solito" Zucchero (quello "classico" di "Blue's", di "Oro, incenso e birra", o quello un po' "annacquato" degli album successivi): delle suggestioni funky, gospel, blues (se mi si passa il termine…) non c'è davvero traccia in quest'opera, così come sono assenti le famose (o famigerate?) "citazioni", più o meno smaccate, di altri artisti. Dobbiamo infatti allontanarci di molto dall'artista (e uomo) smodato, amante degli eccessi, scopertamente allusivo o addirittura lubrico: il primo Zucchero sembra davvero tutto l'opposto, a partire dalla copertina dell'album (molto semplice e in certo modo pudica, di contro all'istrionica immagine scelta per "Rispetto"), dove campeggia la faccina (allora) slavata e gentile del giovane Adelmo.

"Un po' di Zucchero" è un lavoro intimista, dolce, introspettivo, malinconico: canzoni delicate, morbide, che richiamano sensazioni impalpabili ma non per questo meno belle, anzi.
Sono 10 pezzi. Si comincia con "Una notte che vola via", piccola gemma che nel 1982 valse al ventiseienne Adelmo la finale nella categoria "giovani": cadenzata dai palpiti amorosi e accompagnata dal magnetico incanto di mare, cielo, stelle, è una canzone intrisa di struggenti evocazioni, ben supportata da una melodia semplice e diretta. Segue "Non aver paura", breve e sussurrata, canto d'amore pulito e candido, dal sapore adolescenziale. È poi la volta di "Tempo ne avrai", rievocazione incentrata sul dilatarsi del tempo che, quando si ha un'età verde, sembra infinito, e il domani è sorridente promessa. "Fuoco nel mattino" è una delle più belle canzoni dell'album: ascoltandola, le immagini (il risveglio dopo aver fatto l'amore, le corse sui prati, i vestiti di lei, la vita paesana, il tavolo in trattoria, un cappuccino fumante) scorrono rallentate, rattrappite nella struggente malinconia del ricordo: è il racconto di un sentimento naturale e innocente, che si fa promessa di un amore eterno ("lontano dai giorni neri amica mia dagli occhi chiari, per tutto il tempo che mi resta t'amerò"). Molto bella anche "Che destino sei", altamente suggestiva, come del resto tutte le canzoni di questo album, dove le parole vanno prese non tanto per quello che significano letteralmente, quanto piuttosto per la loro valenza connotativa, evocatrice di sogni: la complicità tra innamorati ("cacciatore non c'è che ci possa sorprendere"), la tersità del sentimento ("vicini a un cielo pulito"). Discreta "Nuvola", anch'essa ammessa alla fase finale di Sanremo (1983). Si torna su alti livelli con "Come l'aria": bel motivetto e parole affidate al vento, anelito di libertà ("noi come l'aria che vola su terre lontane e padroni non ha… chi siamo noi, senza catene nel male e nel bene"). Tra le migliori va annoverata anche, a mio parere, "Perché sei bella": ascoltarla riporta alle passeggiate tra fidanzatini, mano nella mano…i complimenti alla bellezza di lei ("perchè sei bella, come un settembre di Normandia"). Bruttina "Sandra", la meno riuscita a mio giudizio; Adelmo si riscatta però con l'ultimo pezzo dell'album, "Stiamo insieme", forse la canzone più raccolta e intima di tutte ("dolci momenti tuoi, fragili gesti, quando ti svesti…addormentati a terra i tuoi sogni veglierò…mentre fuori è già domani").

Insomma, "Un po' di Zucchero" mi sembra davvero un lavoro degno di essere (ri)ascoltato; condannato presto all'oblio, avrebbe invece meritato miglior sorte: parole e melodie semplici e immediate, ma nel contempo pregnanti e immaginifiche, capaci di esprimere sentimenti delicati e teneri senza scadere nella banalità e nella retorica. Un'opera che chiude i conti con gli anni settanta e con la melodia italiana classica di cui è chiaramente debitrice, un canovaccio che Zucchero non riprenderà più: presto avremo la virata verso i generi che lo renderanno famoso e lo consacreranno ai massimi livelli; arriveranno gli urli, le trasgressioni e gli eccessi, un po' spontanei e un po' costruiti ad arte. Ma rimane la nostalgia nei confronti di un passato fatto di sensazioni inesprimibili e destinate ad essere incastonate nel mosaico dei ricordi più dolci e puri.

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