Introduzione:

Quando si cazzeggia, bisogna ricordarsi sempre di far emergere l’ironia. Se non lo si fa, si passa per tamarri, ridicoli, in definitiva ignoranti; il che è uno dei difetti più gravi che si possa avere a questo mondo.

Agli ZZ Top non ha mai fatto difetto l’ironia ed eccoli infatti, in questa copertina, fare gli gnorri e gli accomodanti, però a ganasce allargate dal riso a favore di fotografo, mentre che fingono di venir beccati con le mani nella marmellata, anzi marjuana, da una specie di sceriffo… La scena fu sicuramente fotografata nel deserto delle White Sands del New Mexico, non lontanissimo da casa loro a Houston, un posto un po’ così (ci hanno fatto esplodere non so quante bombe nucleari, in tempi ancora ben lontani dalla attuale globalizzazione).

Contesto:

Siamo al settimo album e le barbe di due di loro, che presto diverranno celeberrime, sono oramai cresciute alla lunghezza standard del resto di carriera. Questo d’altronde è il lavoro che subito precede l’ottavo e storico “Eliminator”, dove oltre a i barboni vi saranno la Ford coupé rossa anni trenta col loro logo sulla fiancata e nel ciondolo portachiavi, le strafighe ammiccanti, le chitarre roteanti a 360° e con la pelliccia, ed altro. Con tutto questo ambaradan intorno, gli ZZ Top riusciranno a diventare “commerciali” pur mantenendo la musica ad ottimi livelli, soltanto guarnendola di gadget accattivanti (compresi qualche sintetizzatore spernacchiante e le partiture di batteria costrette a una certa, “ballabile” rigidezza).

Punti di forza e lacune:

“El Loco” uscì nel 1981 e non è fra i migliori, né fra i peggiori dischi del terzetto texano: se la cava decentemente. L’intelligenza e l’ammirabile minimalismo dei tre strumentisti consente al solito di apprezzare la loro filosofia musicale, quel modo di suonare sornione senza fretta e senza affanno, lasciando vuoti e pause e sincopi e la batteria da sola qui e là, senza gonfiare la musica di inutili sovra incisioni.

Vertici dell’album:

I Wanna Drive You Home” è un ipnotico rock blues appoggiato sul pedalone del basso. Magistrale l’assolo di chitarra slide del buon Gibbons, capace di elevare l’ipnosi addirittura a vera e propria psichedelia.

Leila” è una ballata country rock tanto solare, ma secondo me ironica pur essa quasi a scimmiottare gli Eagles, compresa la steel guitar scolasticissima che pennella qua e là. Ci sta, per spezzare tutto quel blues fangoso degli altri brani.

Pearl Necklace” sarebbe una collana di perle ma forse il pezzo celebra ancora una volta la chitarra preferita di Gibbons, una Gibson Les Paul che lui ha battezzato Pearly Gates, dalla quale non si separa mai e che sicuramene viene suonata nel pezzo, facendone risaltare l’incomparabile sustain, assicurato dai quasi cinque chili di legno pregiato con cui è fatta.

Groovy Little Pad” è emblematica perché introduce i sintetizzatori e degli effetti elettronici, i quali gonfieranno con parsimonia ma chiara evidenza il suono degli ZZ Top per il resto degli anni ’80. Quindi relativa importanza tematica e melodica, ma forte incidenza storica.

Incredibilmente arriva quasi alla fine una cosa praticamente Zappiana con la gustosissima “Heaven, Hell or Houston”, una faccenda assai stravagante nella quale il ritornello non c’entra niente colle strofe, vi sono effettini e rumori qui e là e il tutto non c’entra nulla con l’abituale rock blues sudista dei nostri.

Il resto:

Nel brano d’apertura “Tube Snake Boogie” il capo Billy Gibbons ci sciorina ancora una volta una bella fetta di fraseggi rock’n’roll, da lui mandati a memoria sin dalla più tenera età: intanto che ci ragguaglia anche sulla raucedine della sua emissione vocale, che ha ormai raggiunto il punto ideale.

Se si vuole realizzare com’è la voce di un texano ubriaco c’è questa “Ten Foot Pole” come terza traccia: non si capisce niente di quel che borbotta, bisogna tirarsi giù le liriche da Internet… Il solo di chitarra invece è perfettamente godibile, bagnato di tremolo e sapientissimo.

In “Don’t Tease Me” canta anche il bassista Dusty Hill, con il suo timbro più chiaro e meno tabagista. Anche se qui la produzione cerca di rendergli lo stile vocale simile a quella del socio.

It’s so Hard” è un southern rhythm & blues, se si può dire, e come tale insignificante. La chitarra suona pulita e stereotipata, così tanto da far sembrare una presa per il culo del genere anche questa loro uscita.

Il microfono viene ripreso dal bassista nella conclusiva “Party on the Patio”, dalla creativa conduzione ritmica da parte dell’ottimo Frank Beard. Tra echi esagerati e strani timbri new wave potrebbe passare anche per un brano dei Cars, pensa te.

Giudizio finale:

Quest’album presenta gli ZZ Top che continuano ad evolversi (avevano cominciato con “Deguello”, due anni prima) e cercano di cavalcare gli anni ottanta, difficili per chi è sulla breccia da fine anni sessanta.

Partendo dalla posizione assolutamente scomoda di una boogie band texana ancorata al rock’n’roll degli anni cinquanta, ce la faranno incredibilmente tirando su nel resto degli anni ottanta anche un bel pacco di soldi. Negli anni novanta poi il bengodi finirà e loro, persone serie e appassionate malgrado le smorfie da cazzoni, continueranno a rimanere insieme.

Sono nella stessa formazione da più di cinquant’anni, cazzo: massimo rispetto.

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