Che barba che noia. A proposito di peli facciali tutti saprete bene che in questa amatissima e gloriosa band c’è una barba di (cog)nome e ce ne sono due, dorate e stirate, di fatto. Maestri birrai del Texas, brasatori di bisteccone del deserto, benzinai southern, fraciconi blues, gli ZZ Top arrivano al 1990 dopo una lunga pausa proponendo questo "Recycler" che fa capire subito il perché l’ultimo disco fosse stato dato alle stampe nel 1985. Idee esaurite, puzza di riciclaggio di musica sporca. Salvati dal mestiere arrivano nel mio anno preferito del rock con un disco da laboratorio chimico che, pur avendo pochissimi picchi di gloria, e pur invero annoiando molto a tratti, riesce comunque a suonare come un album di marca. Per questo non c’è la bocciatura. Pezzi come "My Head’s In Missisipi", perfetta mescolanza di ritmi sornioni e sonnolenti southern blues, giustificano la pubblicazione di questo album di dieci tracce di cui personalmente gliene passo cinque. La opener "Concrete & Steel" è subito chiaro manifesto di quel che sarà: hard blues southern a tratti spaziale, sintetizzato chimicamente in laboratorio e compatto come un’arista di bisonte incrostata di sale grosso pronta da essere messa in forno. Un custom hard rock concreto anche di fatto a cui non si può dire proprio nulla perché, anche se non nuovo, è sicuramente suonato da maestri. In autostrada potrebbe essere il motivo di una multa per alta velocità.

La produzione acidissima e scientifica dà un’aria quasi industriale all’album: risultato è che la batteria, da mano umana suonata, sembra proprio una drum machine. A me il risultato non dispiace troppo. Così viene creata un’atmosfera da Paura e delirio a Las Vegas che promette mostri e sballo. Ma in fondo il disco è attraversato di traccia in traccia da quel composto senso di trasgressione, da quel rigido maschilismo southern che questa volta – e purtroppo non come in passato – ci fa fare sosta in uno squallido motel di una route non principale. E nel motel, a livello seminterrato, puoi trovare questi omaccioni con la barba bionda indorata da birra colante che ficcano verdoni nel tanga della spogliarellista con le pajettes sui capezzoli a ritmo di "Lovething", simpatico pezzo che ci sta tutto e che conferma la ormai trentennale scelta di una base ritmica southern/mapiùblues dominante e asfaltata, su cui intervengono gli assoli cow boy di una chitarra100% born nel cuore degli U.S.A..Ecco, nota interessante può essere effettivamente una riequilibratura blues alle quattro gomme, e quindi un recupero delle tradizionali musiche che nei 70 avevano presentato gli ZZ Top come superband a tutto il mondo. Ma non c’è molto da esultare quando si ascoltano brani come "Penthouse Eyes", che un po’ rompono con la solita solfa anche se ottimamente suonati. "Tell It" è altro esempio di quanto appena detto. Sparato a duecento all’ora c’è "Decision Or Collision", niente male. "Give It Up" è un brano zozzone che s’è fatto una micro goccia di LSD e funziona bene, così come "Doubleback", classicone intramontabile.

La cosa strana è che questo album ha regalato tre brani al Greatest Hits definitivo della band. In fondo ci stanno tutti ma la storia che proprio non funziona è la mancanza di originalità ben supplita dalla presenza della solita verve. Disco da cui si può prescindere, se siete appassionati ascoltatelo. Altrimenti leggetevi le altre recensioni sugli ZZ Top. Troverete di meglio.

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