This is Boston, not LA. Anche se in quest'ultimo lavoro c'è una bella fetta di San Pedro, sponda Minutemen. Mike Watt, del resto, l'ha sempre detto: l'hardcore è un genere fondamentalista, ignorante e reazionario. Poche regole, invalicabili ed immutabili: la bravura di un gruppo sta nel renderle non un opprimente cilicio, bensì uno strumento per mettere ulteriormente in risalto i propri virtuosismi e le proprie peculiarità, senza tradire il genere stesso.
Ed il quintetto di New Bedford si dimostra fedele al verbo di Boon, oltre a sposarne i dettami stilistici: cassati i divertissement midtempo del precendente "Ruiner" (buono, anzichenò), gli AWS fanno terra bruciata intorno a loro, suonando come Dio comanda e rendendo impietosi i confronti con i colleghi. Spiace, davvero, ma non c'è storia, in termini di caratura live, personalità e freschezza. La scena può respirare e Tim McIllrath finalmente svernerà al confino smettendo di sfoggiare (horresco referens) la scritta "Out of Step" della sua Gibson.
Fatica che suggella la definitiva consacrazione, "Career Suicide" si snoda epilettico tra tredici episodi di classe frenetica e purissima, agitandosi tra reminescenze Pennywiseiane e litanie alla Propagandhi: un'unica e monolitica traccia, quasi ossessiva nella sistematicità dei suoi sferzanti cambi di tempo. Un mirabile monstrum nella letteratura hardcore punk.
L'onere di aprire le danze grava su "I Wipe My Ass With Showbiz", miniatura slamdance dagli anfetaminici intrecci chitarristici, perfetto parquet per le invettive al vetriolo del bravo Nuno Pereira che, a dispetto dei retaggi ispanici, sbava per i Celtics. Ma il primo capolavoro è sicuramente "The Horse", esaltato dai riff delle due primedonne a sei corde. In questo modo è però Robinson a rapire la scena: duella a colpi di tapping con Supina e Reilly ed il suo basso dal timbro caldo e morbido fa il vuoto attorno a sé: Alvarez e Freeman mirano soddisfatti, l'allievo ha superato i maestri.
Vera colonna portante dell'opera, lo Stingray vomita colate di lava incandescente in preda ad un‘estasi palpitante ("Die While We‘re Young", "5 to 9") per poi cambiare repentinamente registro e prodursi in pentatoniche acidissime che manco il Greg Ginn di Rise Above ("Jaws 3 People 0", "These Dead Streets"). Sotto l'egida, ovviamente, del buon orchestratore-aizzatore Angelini, ineluttabile virtuoso dietro le pelli.
La ricetta è più o meno la stessa per tutti i pezzi, ma l'uniformità di fondo non inficia la proposta, anzi, ne incrementa ulteriormente il valore, lasciando l'ascoltatore spiazzato dall'amplissimo spettro di soluzioni. Nessuna battuta d'arresto, solo capolavori alla velocità della luce: come non citare la grandissima "Our Ghosts (Contemporary/Consensual)", che esula compiaciuta dalla classica struttura della canzone, sfoggiante un Pereira eclettico nel trovare linee vocali catchy sempre diverse, o la più commerciale "These Dead Streets", sospesa tra stop ‘n' go e call and response, che rimarca ulteriormente l'inutilità della proposta dei Lagwagon.
Ma l'apoteosi è tutta riservata all'epilogo "We Built This City! (On Debts And Booze)": Angelini sale in cattedra col suo battito tecnico ed istintivo, il quale si sviluppa funambolico, esulando dalla sua funzione ritmica per farsi protagonista assoluto: in quattro minuti di illuminato delirio riesce a condensare una sfuriata selvaggia, un midtempo frenetico ed un clima d'attesa punteggiato da Robinson, per poi eclissarsi nel più poetico dei fade out.
Insomma, siamo di fronte ad una tecnicissima valvola di sfogo, che finalmente abbassa la pressione di un genere ormai saturo, imbolsito dalla sua retorica e dai suoi cliché. La vita, giunti alla fine della prima decade del millennio, sembra ancora lunga. Certo, "Endgame" permettendo.
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