Era il 2001 quando gli Aereogramme si affacciarono per la prima volta sulla florida scena progressive-rock inglese. Sebbene in teoria fossero attenti discepoli degli Smashing Pumpkins e Jesus and Mary Chain, il loro esordio “A Story In White” lasciava intuire uno stile più ambizioso e complesso, che si rifaceva ad anni di slow-core, hard-rock e shoegaze, senza peraltro imitare pedissequamente nessuno dei tre, ma lasciandone scorrere le intuizioni in un flusso di pura emotività.

Il disco si apre, con “The Question Is Complete”, con ronzii elettronici e rumori indefiniti, a cui si sostituisce un riff di chitarre distorte spezzettato, finchè la timida melodia intonata dal cantante non restituisce continuità al frammentario accompagnamento, tutto pause e sussulti. Il brano va avanti così per cinque minuti circa, affannato e singhiozzante, con improvvise impennate sonore e una coda che conferisce al tutto un tono cupo e apocalittico. “Post-Tour Pre-Judgement” è altrettanto composita: ad alternarsi qui sono una strofa acustica, dall’inflessione soffice e bucolica, e un ritornello allo stesso tempo celestiale e goliardico, caotico ed angelico, urlato a squarciagola e cullato da tastiere cinguettanti. Una calma improvvisa, poi un lento e struggente crescendo (“…fuck the devil, fuck myself… ”) fino all’esplosione finale, le urla strazianti del cantante a presagire una tragedia imminente. Poi il silenzio.

L’arte degli Aereogramme è tutta qui, in questo alternarsi di raffinatezza e scompostezza totale. In questo senso “Shouting For Joey” è la quintessenza del loro stile: ad una prima parte che si risolve tutta in due minuti di caos chitarristico e grida sconvolte, si contrappone una seconda di delicatissimi arpeggi pianistici, evocativi di sconfinati paesaggi interiori. Tutt’altro che incoerente o disarmonica, questa coda strumentale è la perfetta evoluzione della sua introduzione, una abissale riflessione in musica sul tumulto dell’esistenza. Quando la band stacca definitivamente gli amplificatori, per lasciarsi andare a dolcissime serenate (“Sunday 3:52”, con un quartetto d’archi) o ballate silenziosissime (“Egypt”, per solo piano e batteria), l’ effetto è doppiamente magico, a richiamare ora, con toccante genuinità, la tenerezza dell’innamoramento (“Something beautiful fell into my life… I demand your skin, needing one chance”), ora lo spaesamento, lo smarrimento, l’orrore del perdersi e la gioia del ritrovarsi.

Meno sincera è “Hatred”, che pure è stato il loro primo singolo. Con quel ritornello troppo accattivante, il suono troppo pulito, il testo troppo esplicativo (“How can I explain my desire to run away?”), si ha la sensazione che sia pochissimo rappresentativa della loro personalità musicale, un esercizio di stile che scivola via senza coinvolgere. Più riuscita è “A meaningful existence”, una sonata pianistica travolta da un trascinante quanto toccante crescendo. I riff nervosi, i cambiamenti di ritmo, le urla infernali di “Zionist Timing” non impediscono al gruppo di nascondere, dietro il rumore, uno dei ritornelli più orecchiabili dell’album, né di dilatarne la struttura in un finale calmo e disteso, di abbacinante bellezza. È proprio questo aspetto della loro musicalità a prendere il sopravvento nelle due canzoni finali: “Descending”, corrucciata e sconsolata, quasi cantautoriale, una discesa negli inferi della coppia (“And I’ ll turn my back, and you’ ll turn around, and I’ m still further than you’ ve ever found”), e “Will You Still Find Me?”, commovente, tesa verso il “paradiso” e la sempre ambita maturità.

Necessiterebbero pagine e pagine per spiegare a dovere la preziosità di questo disco, descriverne le affascinanti trovate sonore nonché le complesse strutture musicali, ma l’unico consiglio sensato è quello di lasciarsi andare totalmente alla magia che questa band riesce a creare con i pochissimi mezzi a disposizione, alla sofisticata e coinvolgente drammaturgia di questi dieci, magnifici, episodi.

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