"Rashomon" (tempio del dio Rasho) è un film del 1950, girato in bianco e nero, diretto dal maestro Akira Kurosawa, interpretato magistralmente da uno sporco e vile Toshiro Mifune. La pellicola, girata con pochi mezzi, ebbe notevole difficoltà nella distribuzione in patria e all'estero; fu la vittoria del Leone d'Oro al Festival del Cinema di Venezia nel 1951 che ne consacrò il successo e portò alla ribalta internazionale Kurosawa e Mifune.
Nel Giappone feudale, dove violenza e soprusi sono all'ordine del giorno, tre personaggi (un boscaiolo, un viandante e un monaco) trovano riparo dalla pioggia sotto lo stesso tetto. I tre iniziano a discorrere su un fatto di sangue accaduto: un samurai, vagando per il bosco insieme alla moglie, viene brutalmente attaccato e ucciso da un fuorilegge e la moglie viene da esso violentata. Il fatto è narrato attraverso quattro testimonianze: il monaco riporta ai presenti le tre versioni fornite al processo dal bandito (Mifune), dalla moglie del samurai e dallo spirito del samurai (chiamato in causa da una maga), mentre il boscaiolo, infine, sostenendo di essere stato testimone oculare, riferisce direttamente la sua versione. Nessuna delle deposizioni risulta essere uguale alle altre, lasciando indeterminata quale sia la "verità".
Il film, tratto da un racconto di Akutagawa, tratta principalmente i temi della soggettività, della molteplicità del reale, dell'impossibilità dell'esistenza di una sola unica ed inconfutabile verità. La complessità del vero non è l'unico argomento centrale dell'opera, che affronta anche i concetti di ipocrisia degli uomini, di menzogna, di mistificazione. Ogni testimonianza ha le caratteristiche di chi le racconta, o meglio, le peculiarità che i narratori vorrebbero avere: il brigante, smargiasso e millantatore, pone l'accento sulle proprie gesta da uomo impavido e feroce, così come la donna e lo spirito del defunto samurai tessono una vicenda che più li mette egoisticamente in buona luce. Anche la voce del samurai dall'aldilà non è particolarmente convincente; nemmeno la morte e l'oltretomba regalano la certezza della verità. L'ultima testimonianza, quella del boscaiolo, che nulla ha da guadagnare o da perdere in questa storia, pare essere la versione più verosimile (forse le persone più semplici possono cogliere la verità meno distorta?), ma, davanti a tanta confusione, non è possibile credere in toto a nessuno di loro. Proprio mentre la fiducia negli uomini è messa tristemente in discussione, si ode il pianto di un neonato: un appello di speranza o solo un grido di dolore per l'umanità egoista e corrotta?
"Rashomon" attraverso se stesso non tratta solo della verità tangibile (affrontata nella trama), ma gioca con lo spettatore mettendo parallelamente in atto la relatività della narrazione e dunque del cinema. E' interessante notare che le inquadrature sono raramente "soggettive", ma la telecamera riprende i personaggi dando l'impressione di un resoconto "oggettivo" e fedele ai fatti. Tale aderenza al reale è però smentita dalle molteplici versioni fornite al processo dai testimoni, i quali parlano guardando spesso in camera, come se, oltre ai giudici, mentissero anche agli spettatori. Pure il cinema e le sue immagini mentono (interessante sarebbe un confronto con la poetica del Neorealismo italiano, alla ricerca di qualcosa di apparentemente opposto), e, spesso, ciò che vediamo noi con i nostri occhi, non è la realtà, come siamo portati a credere, ma è un astuto artifizio.
La pellicola, che ha aperto le porte del mondo occidentale ad uno dei più grandi registi in assoluto (lo definirei quasi "l'eroe dei due mondi"), è stata anche il trampolino di lancio in patria per Kurosawa e, giustamente, oggi è considerato uno dei suoi capolavori. Mai banale, retorico o scontato, "Rashomon" spinge ad una riflessione profonda sulla verità, sugli "altri" e soprattutto ricorda di non fidarci troppo neanche di noi stessi.
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