Dopo 3 anni dall'uscita del precedente "The Last Hero", l'ennesimo tour trionfale (e la registrazione di un film concerto alla Royal Albert Hall in quel di Londra, con tanto d'orchestra al seguito), e infine gli ormai consueti appuntamenti con i progetti paralleli della band (sua maestà Slash, le rispettive carriere soliste di Kennedy e Tremonti), ecco che finalmente la premiata ditta Myles Kennedy/Mark Tremonti si riunisce di nuovo con l'obiettivo di sfornare l'ennesimo successo musicale in casa Alter Bridge. Richiamati i fedelissimi Brian Marshall al basso e Scott Phillips alla batteria, in pochi mesi (nonostante fossero appena tornati dai tour intensivi degli altri progetti musicali) il quartetto di Orlando ha messo in piedi quello che sarà sicuramente un nuovo successo commerciale, dal titolo "Walk The Sky".

Già dal nome "vincente", e dalla copertina luminosa che omaggia il volo inarrestabile dei "blackbirds", il disco si presenta come la definitiva consacrazione di una band che, dopo un viaggio davvero lunghissimo e inizialmente difficoltoso (soprattutto per togliersi di dosso l'ingombrante ombra dei Creed, ex band di Tremonti), si è affermata ormai come uno dei principali pilastri dell'alternative metal a livello mondiale. I nostri hanno definitivamente raggiunto la vetta del successo nel loro genere: sono una realtà musicale consolidata e ben conosciuta, grazie ad uno stile che, pur rientrando nel mainstream, è pienamente personale, di alto livello tecnico e soprattutto immediatamente riconoscibile.

Essendo una band che ha abituato i nostri uditi fin troppo bene, realizzando in passato alcuni dischi praticamente perfetti, grazie soprattutto alla prolifica vena compositiva dei due geni Kennedy e Tremonti (diversi ma complementari), è inutile dire che le aspettative su questo Walk The Sky erano particolarmente alte. C'era grande attesa, per capire se i nostri si sarebbero superati ancora, come hanno (quasi) sempre fatto. Come è andata? Purtroppo non benissimo.

Intendiamoci subito: questo album non è assolutamente sotto la sufficienza. Gli Alter Bridge sono così bravi a scrivere questo tipo di musica che non riuscirebbero a fare un album veramente brutto nemmeno mettendosi d'impegno. Ma proprio l'aver abituato troppo bene gli ascoltatori fa storcere il naso nei confronti di un qualcosa che non è all'altezza di ciò che ci si attendeva. In che senso? Semplice, gli Alter Bridge hanno terminato qui la loro crescita artistica. Non hanno più nulla da dire.

Ma facciamo un passo indietro. Dopo i primi due bellissimi lavori (quel "One Day Remains" di Creed-iana memoria e il più maturo e cupo "Blackbird"), gli Alter Bridge ebbero una semi-svolta artistica a partire dal controverso ABIII (non pienamente riuscito), da cui prese vita lo stile meno "post-grunge" e più "alternative metal" che si consolidò con il successivo Fortress (in cui raggiunsero il loro apice compositivo) e poi con il discutibile "The Last Hero" (dove le cose cominciavano a scricchiolare). Qui le cose, invece, scricchiolano parecchio: Walk The Sky è semplicemente, purtroppo, la riproposizione ripetitiva, ridondante, a tratti insopportabile delle soluzioni tipiche dell'Alter Bridge sound dell'ultimo decennio, dalla "svolta" di ABIII in poi.

La prima cosa che fa storcere il naso all'ascolto è la produzione, semplicemente abominevole. Un sound ipercompresso, con inutili pluri-stratificazioni sonore, che fa letteralmente girare la testa a chi ascolta l'album per la prima volta, tanto da far rimpiangere la produzione decisamente più pulita dei lavori di qualche anno fa (ABIII e Fortress). Questo senso di eccessiva sporcizia della produzione "maschera" i suoni, rendendo più difficile apprezzare il lavoro degli strumenti.

Dalle varie tracce emerge tutta la stanchezza compositiva di questi 4 musicisti che praticamente, fra tour forsennati e progetti collaterali, dal 2004 a ora non si sono mai fermati. In generale, le canzoni sono più dirette e meno elaborate rispetto al passato, e purtroppo tendono ad assomigliarsi tutte fra loro, testimoniando l'inaridimento compositivo in atto nella band. Certi stacchi di batteria, certi gorgheggi del buon Myles, certi passaggi di chitarra sono ormai praticamente telefonati: basta conoscere un pò il gruppo per capire dove quella canzone andrà a parare. Se questo album nelle intenzioni della band avrebbe dovuto suonare diverso (come Tremonti aveva annunciato prima della sua uscita), lo fa in senso prevalentemente negativo. Insomma, le idee cominciano a scarseggiare, meglio rimpastare alla buona quel che c'è già.

Il tutto sa di già sentito, e fa male ammetterlo, visto che non molti anni fa un album degli Alter Bridge sorprendeva letteralmente ai primi ascolti. E' strano ascoltare un album dei nostri e veder scivolare via più di metà disco senza soffermarsi particolarmente su quasi nessun pezzo. Non bastano certo alcune soluzioni inedite come tastiere e suoni elettronici per svecchiare un sound che comincia ad essere decisamente stantio.

La carenza d'ispirazione è evidente. Il motivo probabilmente è che le migliori idee delle due penne del gruppo, Kennedy e Tremonti, sono confluite prevalentemente sui progetti parelleli (basti vedere gli altri lavori decisamente più interessanti, come l'ultimo album di Slash feat. Kennedy o l'ultimo album di Tremonti). Sono due artisti che dal loro incontro si sono arricchiti ed evoluti a vicenda, ma che nel tempo stanno progressivamente prendendo strade differenti, tanto che forse ora il progetto parallelo sono proprio gli Alter Bridge (artisticamente parlando). Già con il precedente The Last Hero (che comunque riprendeva le coordinate "progressiveggianti" dell'ottimo Fortress) il calo di qualità cominciava a denotarsi, ma qui la cosa diventa preoccupante.

Ma forse la motivazione è anche un'altra, chiamasi "commercializzazione": il calo è cominciato 3 anni fa, proprio in coincidenza del passaggio alla più blasonata etichetta Napalm Records. Lo zampino dei produttori ha omologato, almeno in parte, il sound della band a quello della miriade di altre band alternative presenti in giro (soprattutto nella produzione invadente e nella ripetitività).

Già i singoli di lancio facevano intuire che le cose non giravano come al solito, d'altronde tracce come "In The Deep", "Take The Crown" o "Pay No Mind" sono piuttosto insignificanti rispetto a pezzi del calibro di "Come To Life", "Coming Home" o "Blackbird", tanto per citarne alcuni. Dopo un'inutile intro ("One Life"), e questa "Wouldn't You Rather" che vorrebbe essere il nuovo tormentone da stadio (ma con la metà dell'esplosività di alcune hit del passato), seguono una serie di tracce che negli album precedenti avrebbero fatto da filler, tanto per allungare il brodo. Il sound è più "allegro" e meno cupo rispetto a un pò di tempo fa, forse più pensato per i cori da concerto che per altro. I pezzi più interessanti che possono avvicinarsi ai vecchi fasti sono Walking On The Sky, Dying Light e Forever Falling (cantata da Tremonti, a testimoniarne ormai il desiderio di protagonismo).

Questo disco non è brutto in senso assoluto, ma lo è per una band del calibro degli Alter Bridge, e fa venire tanta nostalgia dei tempi andati. Fa venire nostalgia delle vecchie atmosfere, degli assoli di chitarra davvero azzeccati (e non puro ornamento), degli acuti non abusati ma usati al momento giusto, dell'epicità e delle emozioni che hanno costruito il marchio di fabbrica della band. Insomma, c'è nostalgia dei bei tempi andati degli Alter Bridge. Voto 6/10.

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