La copertina è potente e la musica contenuta lo è altrettanto, tanto da poter considerare questo quinto disco di carriera della gloriosa formazione tedesca il loro migliore, rappresentando alle mie orecchie la più nitida e riuscita fotografia istantanea della progressiva evoluzione della loro musica, partita da un anarchico crogiuolo californian/asburgico e finita ahinoi in un banale ibrido pop/progressivo. Qui siamo invece nell’ottimale periodo di mezzo: le canzoni si possono già chiamare tali tutti gli effetti, non essendo più le scombicchierate seppur geniali jam session degli inizi, indubbiamente conturbanti epperò confuse e malamente registrate; pur tuttavia abbondano sperimentazione, creatività e sana visionarietà psichedelica.
I sette brani della Città Lupo sono qui e là ancora debitori della West Coast più hippy, tutta chitarre acide e inni a squarciagola, ma adesso interviene un che di poderoso, un indurimento verso il british rock quasi blues che prende a strutturare e dar meta agli smanettamenti d’avanguardia sui sintetizzatori, al rumorismo d’effetto, alle percussioni etniche; il tutto sovrainteso da quella rigorosa forza teutonica che sembra quasi spandersi dall’arcigna scultura di copertina dentro le singole composizioni, specie quando a cantarle con piglio da funzionaria Gestapo c’è la potente ugola di Renate Knaupp, una Grace Slick wagneriana con in gola una specie di sensualità sadomaso, irresistibile.
La sua voce da caduta degli dei buca clamorosamente le casse dello stereo nell’esteso (quasi otto minuti) brano d’apertura “Surrounded By The Stars”, eccelsa botta interstellare da fare invidia ai migliori Hawkwind, aperta dal gioco fra chitarre acustiche ed elettriche (bellissimo il riff, semplice quanto ancestrale, di John Weinzerl) alla maniera dei Jefferson Airplane ma poi tesa a gonfiarsi sempre di più di pathos nordeuropeo, specie negli strazianti break al violino elettrico di Kris Karrer.
E che dire di “Green Bubble Raincoated Man”, una faccenda altamente psichedelica che inizia con una ninna nanna scandinava alla Bjork (lustri prima che la suddetta nascesse, beninteso), poi cambia di ritmo e va in jam session guidata dal portentoso bassista Lothar Meid, lui fra le massime espressioni che io conosca di approccio melodico a questo strumento.
Un lugubre latrato elettronico fra transitare l’ascolto senza soluzione di continuità al terzo brano “Jail House Frog”, semplicemente un capolavoro di mini suite che apre con un rabbioso riff di Winzerl su cui lavorano bordoni di sax di Karrer ripieni d’eco, poi la sua voce mezza rap e quindi un coro fragoroso da funerale elettrico, che lascia il campo ad una sublime progressione Bachiana di pianoforte. Lo strumento, nelle mani di Falk Rogner, si inerpica quieto fra bubbolii liquidi, gracidii e trilli di selvaggina esotica, onnipresente mellotron settato a cori, fino a che la batteria di Daniel Fichelscher gli prende il tempo e conduce la musica all’esplosione terrificante del sax di Karrer, capace di scardinare qualsiasi ritegno e far gridare al grandioso.
Il pezzo che intitola l’album è il più semplice fino a questo momento di carriera… un buon riff di Weinzerl riimbellettato dal solito basso creativo di Meid. Assai più sconcertante la successiva “Wie Der Wind Am Ende Einer Strasse”, mini suite strumentale che attacca con un lavoro circolare di chitarra che sembra proprio di stare sul primo disco solista di David Crosby, però continua il viaggio in crescendo a colpi di tabla, sharangi e violino, in aggiunta a un organetto orientaleggiante tanto ma tanto a’la Richard Wright.
“Deutsch Nepal” è un episodio minore, una specie di marcia trionfale con le note grasse del Mellotron e dell’Hammond che si fanno brevemente da parte solo per dare spazio a una tiritera in tedesco, il tutto in ogni caso racchiuso in tre minuti appena. Il finale è alla grande coll’ennesima eccellenza “Sleepwalker’s Timeless Bridge”, che parte sommessa come a dare la stura a una ballata pop ma invece viene invasa dalla batteria massimamente progressiva che consente sfoghi di tabla e di chitarra elettrica. Vi è poi un break con un breve cantato di Karrer esaurito il quale, senza soluzione di continuità, assolve sempre di più il mirabile Mellotron di Rogner, che circumnaviga i King Crimson andando oltre e scoperchiando le menti di chi ascolta, forse per l’ultima autentica volta prima che questi genialoidi teutonici diano una regolata alle loro vite e purtroppo anche alla loro musica.
Krautrock al meglio del meglio, disco magnifico.
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