Provo molta difficoltà nel parlare di Anna von Hausswolff, talentuosa polistrumentista
(mettiamoci anche bella che non guasta mai) venuta dalla fredda Göteborg.Tale difficoltà
nasce dal fatto che tutta la critica musicale specializzata le ha già messo gli occhi addosso
e si sprecano articoli e recensioni seminati in varie pagine cartacee e digitali.Tutte menzionano
l’organo a canne del 1963 della Marmorkirken (la chiesa di marmo) della capitale danese
usato per gran parte dei suoi brani, come tutte parlano del profondo doom che ha avvicinato
schiere di borchiati, la drone music che ha attratto loschi figuri in abito nero e la neoclassical
che ha reclutato adepti persino negli ultra integralisti di Wagner e Beethoven. Non rimane
niente da aggiungere alla storiografia e alla scheda tecnica di "Dead Magic" che non sia già
stato ampiamente ed esaustivamente descritto da chiunque per ogni dove, ragion per cui il
mio scritto verterà principalmente nell'analizzare il rapporto tra la musica della bella e brava
nordica e le radici custodite nelle sue composizioni, l'arcano influsso che le terre scandinave
esercitano sulle proprie popolazioni e non solo. La cultura norrena poggia le sue fondamenta
su un concetto imprescindibile: l'esistenza di ogni essere vivente corre in un cerchio dove il
punto d'origine, prima o poi, viene calcato nuovamente e per ripetute volte, una sorta di gioco
del Monopoli dove ciclicamente passi dal Via. Non conosciamo l'imput che ha dato il via alla
Von Hausswolff ma possiamo identificare nel precedente lavoro "The Miraculous" un punto
di svolta nella carriera artistica della suddetta, sdoganata in un underground d'elite che le ha
conferito un'edicola da culto.
L'arcadia iniziale con insolito (ingannevole) brio, tratta il tema della verità ("The Truth")
camminando lungo i percorsi onirici in bilico sui crepacci dell'esistenza, l'infido Ginnungagap
del grande nord. Una dilaniante certezza "...From his heart and from his sadness, he sadly sang
for me..." ed una rassegnata speranza "...After the fall i'll find you...", discendono lungo le canne
d'organo e corrono lungo i tasti del mellotron fino alle bacchette oscillanti di Ulrik Ording che
d'improvviso introduce il bagliore (The Glow), accecante e ovattato, delineato nella forgia
di un angelo bianco che funge da trait d'union tra il genere umano e il divino; l'uomo riduce le
distanze da Odino o, viceversa, gli Dei della Skaði si avvicinano sostanzialmente agli umani.
Tale assottigliamento è acclarato da un punto fondamentale della mitologia nordica, ossia la
mortalità degli Dei, proprio come succede agli umani (a differenza della cultura greca e romana).
Qui il bagliore si affievolisce e comincia la caduta (The Fall). I toni s'abbassano e quel brio
iniziale comincia pian piano ad estinguersi sull'ossessionato mantra "feel the fall..." che annuncia
nuvole nere all'orizzonte. E puntualmente arrivano. L'incedere marziale e austero nelle
evanescenze di "The Mysterious Vanishing of Electra" ci conduce nuovamente nelle fredde,
oscure terre del Ginnungagap battute dai venti e dalle piogge, evocate egregiamente nel videoclip
diretto dalla sorella Maria von Hausswolff, responsabile anche dell'artwork dell'album che ritrae
una sinistra, inquietante immagine, per certi versi simile a "Parsifal" di Odilon Redon.
"I wanna die...he wants to have my glorious...". Anche "Ugly and Vengeful" si presta a molte
interpretazioni, ad iniziare dai liaison primordiali, decodificabili nell'importanza che i vichinghi
davano alla dipartita terrena. Infatti, essendo una popolazione di guerrieri, consideravano il perire
in battaglia l'unica via d'accesso al paradiso. Sommessa litania di disarmante bellezza,
ripercorre le strade battute a loro tempo dai Dead Can Dance nella sperimentazione sonora
gregoriana, in un crescendo ravel-iano fino all' implosione terminale. La strumentale
"The Marble Eye", un "horror liturgico" da far accapponare la pelle, rieccheggia nelle navate,
contro absidi e capitelli, generato dalle mani sapienti della poliedrica artista sul prestante
organo. Il viaggio sonoro nella "magia morta" è culminato e suggellato dalla conclusiva
"Källans Återuppståndelse" e qui non bisogna andare chissà quanto a ritroso, basta un figlio di
Odino dal nome Walter Ljungquist ed un suo racconto del 1961 incentrato sulla ricerca della
fonte di eterna giovinezza.
"Dead Magic" è un'attenta e brillante ricerca nelle spirali del suono, la sperimentazione che
porta un vento nuovo nell'universo della quinta arte in sincronia con gli elementi del passato
e la scandinava dalla lunga chioma d'oro ne è la famigerata artefice. Cotale talento non è
passato inosservato allo sguardo attento ed esigente di un certo Gira che ha reclutato la
suddetta per aprire i live dei suoi Swans.
Dalle brumose, sulfuree sponde della Svezia è salpato un drakkar straripante di leggende
inenarrabili, incantesimi e incubi sonori e viaggia nel cuore della notte a venti nodi in direzione
imprecisata, scortato da un luciferino organo da chiesa che ne annuncia la vicinanza.
Occhi aperti e restate in campana.
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