Dopo il triangolo delle bermude, virgola la stella del telefonino, ed il perchè la legge italiana non preveda il principio di "giusta causa" nel caso io uccida a morsi il tizio che mi scavalca nella coda per la pizza al taglio, ecco l'ennesimo mistero nella storia dell'uomo: "State Of Euphoria". Dopo anni e anni di profonde riflessioni sul motivo per cui l'unico pirla euforico sia io, e il disco venga invece spacciato dal resto del mondo come una ciofeca pazzesca, ad oggi sono finalmente giunto ad una conclusione definitiva: spero che questo inutile pianeta esploda in una nuvoletta di bum.
Per chi non lo sapesse, l'album in questione è da sempre stato bollato come un clamoroso passo falso, e per giunta dagli stessi fan che considerano "Among The Living" il miglior lavoro mai partorito dalla band. Davvero incredibile, date le molteplici analogie tra i due e la riproposizione, seppure in chiave meno funny, di quelle sperimentazioni che caratterizzarono due anni prima l'ingombrante predecessore.
I cinque hanno forse la gravissima colpa, oltre a sopravvalutare clamorosamente il cervello dell'anthrax-fan medio, di non voler ripetersi in toto: compattano ulteriormente le ritmiche, snelliscono un pochetto i brani, ma senza renderli per questo meno intricati, anzi. Qualcuno afferma che questo sia l'album più intimista e crepuscolare della loro discografia, ed in parte, ciò è pure vero: se alcune composizioni sono in effetti molto più riflessive, meditate rispetto al passato, d'altro canto non mancano di certo degli episodi più diretti, sulla scia di quell'hardcore-thrash più sfrenato che li ha resi famosi.
Ma minchia, se questa varietà di intenti e di proposta musicale è da considerare un difetto... Il problema è più che altro quel dannato buco nero custodito nel vostro cranio, direi.
A dir poco esaltanti i riff portanti di "Out of sight, out of mind" e della conclusiva "Finale" (mai titolo fu più azzeccato, probabilmente), un irrefrenabile treno in corsa. Meno elaborata e furente l'opener "Be all, end all", un brano che colpisce per la sua ricercatezza nelle melodie e per l'inusuale intro di archi. Interessantissime le sperimentazioni (soprattutto vocali) di "Make me laugh", un pezzo che ha bisogno di una lenta assimilazione, per poter essere apprezzato appieno. Puro, scultoreo tecno-thrash per quanto riguarda gli oltre sette minuti della centrale "Who cares wins", altro episodio memorabile che non si caga mai nessuno.
E' invece ben più celebre "Antisocial", una canzonetta dalle ritmiche leggere e divertenti; d'altronde trattasi di una cover dei Trust, gruppo hard rock francese. Nulla per cui strapparsi le mutande ma carina, comunque.
Il resto dell'album (cioè le rimanenti "Schism", "Now it's dark" e "Misery loves company", dato che "13" è una strumentale di 1 minuto, o poco meno) si staglia su ottimi livelli, inutile cercare peli nelle uova; tanto non ce ne sono. Insomma, per l'amor del cielo: evitate di credere alle baggianate di chi storce il nasino se i suoi idoli, per una volta, non si presentano con il solito fare da allegri gigioni (leggasi: italoamericani), perchè per riuscire a non notare l'eccellente qualità di SOE bisogna proprio essere sordi. In tal caso si spererebbe anche nel mutismo, ma purtroppo iddio è notoriamente un incorreggibile, dispettoso burlone.
Forse un filino meno brillante di ATL, quello sì, ma ...'sticazzi. Un filino.
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