Si sente un suono che viene da lontano, come dal cielo, un suono di corda che si spezza, un suono triste, moribondo. In lontananza, dal giardino, la scure picchia sull'albero.

E poi cala il sipario. Non solo sulla parabola artistica, ma anche sull'esistenza stessa di Cechov che - malato da tempo - morì sei mesi dopo la prima messa in scena de "Il Giardino dei Ciliegi".

In effetti, riletta dai posteri, la nota di regia finale della pièce sembra acquistare un duplice significato: da un lato prefigura gli ultimi, estremi aneliti di vita del suo autore che già sente il rumore dei chiodi che stanno serrando la bara e dall'altro è una sorta di testamento, di chiave di lettura di tutto il suo teatro.

La vulgata vuole Cechov come un drammaturgo essenzialmente naturalista, un uomo ancorato ai meccanismi psicologici e sociali del presente a cui la sorte lo aveva destinato i quali trovavano nella produzione artistica un riflesso perfettamente aderente.

Ma c'è dell'altro, in Cechov poco è come sembra e la poesia de "Il Giardino dei Ciliegi" è assolutamente universale.

Le cronache ce lo riportano infuriato con gli attori del Teatro d'Arte di Mosca che avevano "tipicizzato" troppo i personaggi. I mercanti di Cechov non sono semplici mercanti, ma trattengono dentro al sé un senso estetico che non si dissolve certo con la loro professione; i nobili decaduti non sono semplicemente vacui e fuori dalla Storia, ma stillano talvolta un insospettabile senso pratico ed hanno un'empatia tutt'altro che di facciata verso le altri classi sociali; i servitori non sono ridotti a macchiette bidimensionali che servono con zelo i padroni salvo poi lamentarsene quando questi sono assenti, ma le loro passioni e i loro desideri sono espressi con una sottigliezza decisiva ai fini della narrazione.

Quello che mancava era soprattutto l'evoluzione del singolo personaggio nel divenire della pièce. Uno svelamento progressivo che avrebbe dovuto contaminare l'atteggiamento di tutti gli altri attori che, a loro volta, avrebbero dovuto contribuire alla singola mutazione.

L'ira di Cechov non risparmiò neppure la regia di Stanislavskij che dell'opera aveva dato un'interpretazione unidirezionale: un dramma sociologico in cui la proprietà del giardino segnava il passaggio di consegne tra la vecchia nobiltà e l'emergente classe mercantile.

Cechov invece scrisse "Il Giardino dei Ciliegi" come una "Commedia" dove gli elementi comici - retaggio dei suoi Atti Unici giovanili - sostanziano e irrobustiscono il lavoro. Si ha la tentazione di depotenziarli solo perché sono inseriti in un contesto che comico non è.

Il punto è che questo lavoro segna la tappa finale di un processo che aveva preso il via da "Il Gabbiano" e in questo senso il titolo-simbolo che li accomuna non è casuale.

Quello che Cechov vuole è raffiguare la vita di un microcosmo sociale durante lo scorrere del tempo.

Per questo commedia e dramma, realismo e simbolismo, grottesco e quotidiano, nobili e mercanti convivono e si influenzano senza soluzione di continuità tra le pieghe della pièce. Per questo - ed è questa la grande novità portata dal Cechov drammaturgo - non ha senso parlare di parti da protagonista, parti secondarie e comparse (o temi più o meno principali): il contributo che ognuno dà alla vita è decisivo e insostituibile.

Su tutti incombe quel giardino: la sua imminente vendita, la sua prossima distruzione. Simbolo nefasto, simbolo di morte.

Ma la morte a cui si riferisce Cechov non è quella di un qualche ordinamento sociale: è piuttosto la fine di una vita condivisa insieme ad altri, un segmento del Tempo e dello Spazio che non tornerà mai più per nessuno dei personaggi.

Ecco l'universalità del messaggio di Cechov.

Perché tutti noi abbiamo sentito, stiamo sentendo o sentiremo presto quel "suono che viene da lontano, come dal cielo, un suono di corda che si spezza, un suono triste, moribondo. In lontananza, dal giardino, la scure picchia sull'albero."

Certi suoni hanno tutti lo stesso rumore.

Carico i commenti...  con calma