Premessa personale, non richiesta. In genere non ascolto le nuove produzioni: c’è già tanta roba in giro che ancora non conosco, intendo pubblicazioni dagli anni ’50 ai ’90; e considero la vita non sufficientemente lunga per aggiungere ai miei ascolti le tendenze degli ultimi 2 decenni. Insomma, conosco i miei limiti; e conoscendo i miei limiti sono rimasto indietro...

Stavolta ho fatto un’eccezione e ho acquistato un ellepì uscito il mese scorso. Eccezione che tuttavia conferma la mia regola... infatti si tratta di registrazioni del ’79, finora mai pubblicate.

“From Ajanta to Lhasa” di Arturo Stalteri è una pubblicazione dell’etichetta Soave, specializzata in musica ambient/elettronica/avanguardia.

Stalteri è un pianista, musicologo e giornalista ormai di lungo corso, dalle produzioni degli anni ’70 con Pierrot Lunaire e da solo, all’attuale attività di conduttore radiofonico. Quando registrò questi nastri, appunto fra maggio e novembre del 1979, era reduce da un viaggio in India: all’epoca era di moda cercare di ritrovarsi andando in India. L’album si apre in effetti col rumore di un aereo.

“From Ajanta to Lhasa” appare, al primo ascolto, un tributo a Terry Riley. Soprattutto il brano omonimo, della durata di oltre 16 minuti e che apre l’LP, riecheggia le “ripetizioni” e la ciclicità di “A Rainbow in a Curved Air”. E come Riley, anche Stalteri suona tutti gli strumenti: tastiere (Organo Farfisa, piano, Synt), chitarre, sitar, percussioni, balalaika, clarinetto indiano, oltre alla preparazione di nastri ed elaborazioni varie. A chiudere la prima facciata la riuscita riproposizione di un brano medievale, composto da Walther Von Der Vogelweide.

La seconda parte è una miscellanea di brani più brevi, anche differenti fra loro. La minisuite “The Sun”, si sviluppa su temi di organo e Synt; ancora una volta con la ricerca della ciclicità come base delle 5 piccole (brevi) perle che la compongono. A seguire le 6 corde, che danno una sensazione di dissonanza, introducono “Studio n.6”. E’ l’unico brano dove si sente una voce, parlante e non cantante: si tratta di un brevissimo intervento di Fabrizio Diofebi. Con “Matmos”, pezzo ispirato probabilmente alla sostanza energetica dell’erotica Barbarella, si torna alla predominanza delle tastiere. A chiudere l’album, “Floating Moon” con Arturo Stalteri al piano.

In sintesi, la stampa di questi “vecchi” nastri risulta una pregevole operazione per un’interessante testimonianza dell’avanguardia italiana nella seconda metà dei ’70. Non del tutto originale, è vero, ma resta un bel documento della ricerca minimalista e ambient, decisamente non commerciale, di casa nostra.

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