Se gli Asia intitolano un loro disco "Arena", vuol proprio dire che l'Arena rock esiste davvero! Nel 1996, perso ancora una volta il chitarrista (Pitrelli), Downes e soci optano per quella che fu a suo tempo (1992, disco "Aqua") una soluzione indovinata, e cioè due chitarristi da annettere a tutti gli effetti alla band. E costoro sono Aziz Ibrahim e nientepopodimeno che Elliot Randall, ovvero uno dei più mostruosi chitarristi del globo. Ritornando ad "Arena", c'è subito da dire che, a dispetto del titolo, questo qui è il disco meno solenne e pomposo fino ad allora inciso dagli Asia. L'iniziale "Into The Arena", per esempio, è un instrumental di chill con tanto di percussioni, su cui s'inserisce 'positivamente' una chitarra in stile Chris Rea. "Arena", il secondo brano ma la prima canzone, nonostante l'incipit molto prog, prosegue all'insegna di un certo pop-chill vecchio stile. Il chorus è ancora in purissimo stile Asia, ma tutto il resto suona come un (buon) pezzo d'annata dei Santana. Persino Downes suona come se avesse tra le mani un vecchio organo Hammond, magari estirpato direttamente da "Black Magic Woman".

Un altro 33,33 periodico percentuale è dedicato ad un poprock di buona fattura, con in primis "Never", che soltanto ha troppe, troppissime tastiere, per pensare di poter piacere proprio a tutti tutti... Ma quando queste si trasformano in Hammond, fondendosi a cori gospel, a John Payne che sembra Joe Cocker, nonché alla stratocaster bianca e nera di Randall, beh allora il pezzo diviene come Egli comanda. Discreta "Turn It Around", poprock notturno, su cui Payne si disimpegna alla grande, a volte urlando a volte bisbigliando. Sottotono "Falling", pop tastieristico (le keys suonano un po' come in "The Logical Song" dei Supertramp) senza infamia né lode. "Words", invece, è una ballad molto bella, orecchiabile... Peccato, 'ste dannate tastiere spaziali ed, in generale, l'immancabile overproduzione.

Restano all'appello alcuni strani incroci, a cominciare da "Heaven", che all'inizio sembra "One Of These Days" dei Pink Floyd; esemplare di Arena rock valorizzato da passaggi più teatrali e parti vocali meno sezionate/ritmiche, e meglio sfruttate melodicamente. Ma sa già di sentito, o è impressione mia? Ah, lo sapete a che assomiglia? Ad "A New Day Has Come" di Céline Dion... E ad "Aicha" di Khaled. E se la prima è del 2002, "Aicha" è del '96, proprio come "Arena". In fin dei conti, la canzone del 're del rai' inizia e finisce per "A", quindi che male ci sarebbe se...? In mancanza però di prova contraria, innocenza piena.

"Two Sides Of The Moon", dal titolo ancora una volta 'evocativo' (sì, ma evocativo di qualcosa e di qualcun altro), ha un incipit che in pratica è "Owner Of A Lonely Heart" degli Yes. Assolo molto aggressive tra bongos che non c'entrano niente, ma tutto fa brodo. Dopo questo spazio sanguigno ed etnico, arriva lo space cowboy Geffrey Downes che ci piazza un minuto buono di eteree (e demodées) tastiere in stile J.M. Jarre. Ma non è ancora finita: l'Asia annette al suo territorio la Giamaica, e "Two Sides Of The Moon" finisce tutta in levare, a singhiozzi... Aziz Ibrahim, chitarrista inglese di origini pakistane (e fin lì l'unico con qualcosa di veramente asiatico), mette in "U Bring Me Down" la sua esperienza nel campo dell'"arabeggiante"... Ma è tutto inutile: salgono tastiere progghissime che annientano le fatiche immani del povero Aziz. Il brano, alla fine, è un medio rocketto bonjoviano, comunque superiore alla media di quello dei detentori del copyright, e per drammaturgia e per atmosfera, e per enfasi.

All'appello mancano soltanto il quasi vivaldiano instrumental finale "Bella Nova", inutile, e due brani di vera pomp music. "The Day Before The War", ballad preceduta da Downes che suona una specie di silenzio ai soldati... L'alba di domani: quello sarà il momento di morire, quindi tocchiamoci alla grande quando sentiamo 'sta canzone... C'è, sotto ad un riff continuo e tipico del rock marziale, un lavoro di batteria e seconda chitarra molto vicino al trash metal... Il brano vero e proprio, quando comincia il cantato, altro non è che una ballad acustica senza alti né bassi, cui fa séguito una troppo piatta performance strumentale. Anche "Tell Me Why" è space loneliness per John Payne, uno che imposta le sue note come fosse un Giovanni Bongiovanni con un testicolo (ed una cinquina d'anni di scuola di canto) in più.

I riferimenti al prog d'annata, quello "pesante", i richiami al blues rock in un episodio, le percussioni, i gusti un po' esotici, le diverse soluzioni sonore, tutti questi piccoli tentativi, tutti messi assieme, riescono a salvare il prodotto finale: la varietà di stili, un maggiore "impegno compositivo", perlomeno a non lasciarsi sempre e comunque sopraffare dai clichés (perlomeno non senza opporre la benché minima resistenza), regalano ad "Arena" la sufficienza. Gli Asia sono e restano, disco dopo disco, una band che vivacchierà negli anni. E se la colpa, in fin dei conti, fosse di Geff Downes, l'uomo-Asia, e delle sue oramai pressoché sgraziate, invadenti e logorroiche tastiere? E se, per il giusto esito (perlomeno in termini qualitativi) dei dischi degli Asia, l'elemento da cacciare fosse lui?

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