A tre anni dallo splendido e sofisticato pop rock cosmico di "Aura", Geoff Downes e John Payne sembrano proprio aver trovato la giusta cifra per dare un vero futuro agli Asia. Tre anni dopo ci riprovano, ma il registro cambia. Non replicare il gusto espresso in "Aura" e tornare a fare rock. Cambiare, rinascere, dimenticandosi dagli azzardati tentativi andati a vuoto in passato; rimettere in discussione tutto, a cominciare da quanto ha più caratterizzato la band in tutti questi anni: il titolo che inizia e finisce per "A".
"Silent Nation" è il titolo per una band che ha finalmente smesso di fare da monumento a se stessa, e che (parrebbe) è intenzionata a ricrearsi una credibilità. D'altronde le età sono quelle della maturità (anche più che abbondante), la band è, gira che ti rigira, pluriventennale, il disco migliore della discografia intera è stato il più recente... Cos'altro manca? E chissà come suonerebbe un disco di Asia-rock nel 2004, fatto con la consapevolezza e la maturità espressa in "Aura": forse è così che si sono chiesti Downes e Payne. Un disco con tutti i canoni di "Alpha" ed "Astra", con tutto l'AOR ed il pomp rock che a suo tempo furono così sgraziati ed infelici da renderli pura mediocrità.
Provare a vedere come va, provare a vedere se "persino" questi generi, grazie al gusto ed all'esperienza vissuta, riescono finalmente a rendere a dovere. Il risultato di "Silent Nation" è decente, sicuramente migliore degli episodi passati, ma non eccelso. L'AOR, nei primi brani della tracklist, non è scatenato, piuttosto è ben scandito. Docile, lineare, non sorprendente, ma neppure insensatamente sfrontato. Il ritorno al pomp rock (in fondo alla tracklist) è pesante e duro in "I Will Be There For You"; medievale ed horror, in "Darkness Day", tra canti gregoriani, il solito immenso John Payne e chitarre echeggianti; standard nella ballad "Gone For You" e nella conclusione epica di "The Prophet". Ciò che cambia è la sapienza nel dosare gli strumenti, tastiere in primis, e nel non enfatizzare troppo i passaggi più a rischio.
Nel mezzo, finalmente gli Asia propongono qualcosa di diverso, dal mezzo Pink Floyd di "Blue Moon Monday", dal soft rock prognato di "Midnight", al guitar-driven rock della titletrack, al rock leggero e di buon umore di "Ghost In The Mirror", roba che te la saresti attesa in un cd di Brian May.
Il risultato è dignitoso ma non all'altezza delle aspettative di chi ha scoperto gli Asia solo nel 2001. Senza infamia, "Silent Nation" sembra dimostrare un po' d'insicurezza, di prudenza quasi. Meglio andarci piano, sembrano suggerirsi a vicenda Downes e Payne: il rischio è quello d'esagerare, e di compiere l'ennesimo tonfo. "Silent Nation" e la sua prudenza sono l'ammissione d'una colpevolezza, d'una responsabilità, e la presa di coscienza che in passato si sono commessi errori grossolani.
Con "Silent Nation" una rock band ha rotto il ghiaccio. Dopo ventidue anni di tentativi.
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