Una compilation dal titolo “Sounds of silence”, una di quelle idee che biascichi tra un vodka tonic e l'altro mentre rovisti i vinili del locale con un piglio a metà strada tra Lester Bangs e Luzzato Fegiz.
“Eppure nessuno ha mai fatto una compilation di tutte le tracce silenziose create dai musicisti lungo il corso del novec ma dove cazzo ho messo il telefono? Fammelo squillare”.
E no. Fine del gioco. L'ha realizzata la Alga Marghen, La compilation di silenzi. Idea bizzarra, no?
E per questa idea bizzarra, scomoderei colte citazioni, tra tutte quella del Bembo: “Un silenzio che può diventare musica”.
Chissà se il Bembo, mentre scorrazzava per Cervinia a registrare il video della sigla finale di Superflash conosceva John Cage e i suoi quattrominutitrentatré.
Il Bembo sosteneva il silenzio nella sua accezione negativa, capace di trasformarsi in musica, consonanza, dindondan, grazie al sacro fuoco dell'amicizia. No. Non l'ha proprio conosciuto Cage, mi sa.
I miei amici sanno che il valore che do all'amicizia è così aleatorio che è meglio usarla con parsimonia,'sta parola. Cioè, io sopra un gatto delle nevi in piena tormenta, a gridare quante cose belle fa un amico, non ci andrei, se non strafatto di Valium. Piuttosto mando una bottiglia di vino e chiusa lì.
Il mio professore di Teoria Musicale diceva che senza il silenzio, la musica sarebbe solo rumore.
A me il suono dell'asciugacapelli piace e non ha mica pause silenziose.
Con 'sta storia dei bordoni credo di aver causato un paio di slavine ma tant'è. Ma quale significato hanno dato, alcuni artisti, a questo silenzio?
Sfortunatamente sono in pochi quelli che hanno intuito il pensiero di Cage.
Cage vedeva nel silenzio la miglior musica d'accompagnamento possibile, svestita dal dire orizzontale e quindi capace di non creare distrazioni o emozioni di sorta provenienti da un discorso esterno.
Buona parte del silenzio contenuto in questa compilation, invece, parla.
È un silenzio che, in un certo senso, vuole farti arrossire di vergogna o che vorrebbe importi il “meditate gente, meditate”. È un silenzio sociale, politico, argomentativo.
Ad esempio, il silenzio dei Crass e quel senso di raccoglionimento (non è un refuso) sulla guerra nucleare (The sound of free speech, si chiama e in The Feeding of the 5000 arriva dopo “They've got a bomb”).
Poi c'è il silenzio di Lennon e Yoko Ono: “Two minutes silence” presente in quel pretestuoso “Unfinished Music No. 2: Life with the Lions”, dove, seppur con i migliori intenti di propaganda stilemica contemperanea che guarda a est, i due ciccarono malamente le loro ambizioni.
Anzi, non andranno molto distanti da un risultato che può ricordare la parodia del concerto di musica contemporanea della coppia buzzurra ne “Le vacanze intelligenti”, mentre la colta in pelliccia ricorda ai due fruttaroli che “Molti non sanno che il Tacet è in partitura”.
C'è anche Maurice Lemaître, e il suo silenzio manieroso, derivato da una sorta di epic win lettrista.
Anche il silenzio di Robert Wyatt incluso in Cuckooland, arriva dopo “Lullaby for Hamza”: una sofferta e fisarmonicata ninna nanna che prende atto del ritorno del grande incubo post 11 settembre: i bombardamenti, l'Iraq.
I Soulfly di Cavalera, tributano l'attentato alle Twin Towers con il più ovvio “minuto di silenzio”, come un Atalanta – Cesena qualsiasi.
Questo concetto di rimanere taciturni e dare significati, significanti e logos a un silenzio, nasce da quel ditkat retorico dell'arte del dire. E questo è un limite (uno dei tanti) di buona parte del pensiero occidentale (temperamento equabile incluso).
E perché mai il silenzio dovrebbe dire o comunicare qualcosa e non essere, semplicemente, un momento per trascendere dal proprio Sé?
“Parli pure quando stai zitto”, parrebbe questa la verità. E non ne usciamo vivi da 'sta storia del discorso, che dice anche quando, da muto, finisce a usi obbedir tacendo e tacendo morir.
Il Tacet in partitura (di Cage), il “Taci!”, imperativo bellico utilizzato per non dare vantaggio al nemico che ascolta (le parole). Il taci e rifletti: meditate gente, meditate! Quante cose può fare questo benedetto silenzio.
In questa raccolta, il 4'33” di Cage non c'è e, al di là delle ragioni, non mi stupisce e non mi dispiace. A Cage, di creare un pensatoio vuoto da speaker corner pseudo-liturgico o celentanate di varia natura, non gli importava nulla. Nel suo silenzio ascolti altro e quell'altro è una verità ancora troppo lontana dal pensare occidentale. Quel silenzio è più vicino al bordone di un sitar piuttosto che a una filippica introspettiva sul nostro agire contemporaneo.
Ecco perché, nel riconoscere i diversi intenti del silenzio, questa compilation potrebbe risultare noiosa. Non tanto perché non ascolterete una sola nota che sia una ma per il semplice fatto che quasi tutti questi silenzi, parlano. E anche troppo.
Parlano, come una frase acchiappalike da social tipo “Ci sono silenzi che valgono più di mille parole. Condividi se sei d'accordo”. E a me non interessa. Mi tengo il “Tacet” in partitura, il non dialogo come opportunità per ascoltare meglio se stessi, senza usarlo come “momento clou”, senza chiedere nulla.
A questo punto vince “Hello darkness my old friend” di Simon & Garfunkel ma mi tengo anche una frase degli Einsturzende Neubauten: “Silence is not sexy at all”.
In fondo, chi ha mai chiesto al silenzio, di essere sexy, passionale e colmo di significati?
È così bello, ogni tanto, non avere niente da dire. Figurarsi se non è meraviglioso non avere niente da non dire.
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