Avrebbe forse Velàzquez potuto prevedere che Innocenzo X, una volta catturato dalle nevrosi di Francis Bacon, ne sarebbe uscito sfigurato dalla rabbia dei colori, con quell’urlo lancinante strozzato nella gola ? Oppure, avrebbero i critici forse potuto prevedere la sorte del rock immaginandone negli Aufgehoben la trappola fatale tesa alla loro stessa vanitas?
Certamente no.
Ma se ammettiamo che nel primo caso non c'è stato nulla fare, allora dobbiamo onestamente riconoscere che nel secondo, mentre l’arte è andata avanti, la critica è scappata indietro, con sadica ed ingenua ostinazione, snobbando deliberatamente il cambiamento, e dandosi riparo sotto il confort ideologico del concetto di "avanguardie", come se fosse davvero l'unico capace di riscattare ogni giorno dalla frustrazione di ignorare il nome con cui chiamare “buio oltre il rock”.
Eh, già, l’errore. Mentre le mazzolate precise degli Aufgehoben indignavano alcuni, molti più facilmente li snobbavano, proponendo le solite asfissianti teorie sul nichilismo sonoro e sulla alienazione sonora fino alla frontiera ed oltre.
I clangori di "Messidor" però non possono essere solo una ronzante furiosa riconsiderazione dello “stato dell’arte”; sono un’onta, rinnovata minaccia, della quale tutti ci siamo macchiati. “Messidor” è il bruto contrappasso del tempo, che scandito dall’urlo sovrumano di “Manotgog” e votato al dolore "per sempre", ed alla insostenibile epilessia di “Urorganon”, stride sul plumbeo cielo dell'attualità con i metallismi naif di di "Ends of Er” e "Shibboleth".
Un segno di giustizia imposto dalla mano del destino. Niente degli scazzi à la page di ragazzini con chitarre "rumorose" e bassa qualità, e neppure nulla dell'inettitudine totale di qualche chiccosissimo compositore di lamentosa bedroom music del quarto mondo. Il viaggio degli Aufgehoben è diverso, concentrico, pericolosamente attuale e minacciosamente descrittivo dello status quo, insieme gelido e terribile, rumoroso come il male e la verità. E’ il non consolante suono del nostro tempo, la gracchiante profezia che niente è bello e niente, nemmeno il male dura per sempre. E’ la vendetta della crapula rock contro la sua stessa lussuria: un processo marziale di moralizzazione indiscriminata e coatta, in cui gli uomini sono meschini come topi e si rifugiano sotto la terra pur di ignorare l'assurdo clangore della realtà (sonora).
Stiamo parlando di una feroce affermazione, sanguigna, ragionata, ed aggiornata alla prossima incipiente fine di partita.
Gli Aufgehoben sono la prova che esistono forme di vita negli antri dell'estremismo musicale, le quali, diversamente dal passivo lamentarsi e tossire del noise più cafone sono il punto sollevato da cui fotografare i vinti e rendere, per mezzo di una iperbole ragionata, il senso dello stordimento post-moderno davanti ad un futuro malvagio.
Havel havalim, dunque, perchè ogni errore nel giudizio sarà punito con un disonore infinitamente più grave.
Il rock della fine del mondo.
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