Gli anni Dieci sono stati per gli Autechre un periodo di sperimentazione a dir poco impetuosa. Dopo Oversteps e Move of Ten, Brown e Booth hanno infatti pubblicato dei lavori che non si limitano a mettere in crisi gli elementi basilari della composizione musicale (ritmo, melodia, forma, struttura), ma trasmettono una sensazione di infinito flusso sonoro. Questo aspetto è riscontrabile in Exai, nei duecentocinquanta minuti di Elseq 1-5 e nelle monumentali NTS Sessions. In queste opere il duo inglese raggiunge delle innegabili vette di astrattismo, ma al tempo stesso si allontana sempre più dall’idea di fruizione, a causa della lunghezza esasperante delle sue creazioni. Come se non bastasse gli album portano all’eccesso quella destrutturazione tipica dell’ultimo ventennio, dando l’impressione di una musica che si autoannulla, riducendosi, per alcuni, a un cerebrale e autoreferenziale esercizio di stile.
Fa quindi un certo effetto parlare di SIGN, un disco che contiene undici tracce per sessantacinque minuti di durata complessiva. Il messaggio è chiaro fin dalla copertina, realizzata dallo studio grafico The Designers Republic: siamo di fronte a un cambio di marcia, o meglio un ritorno all’essenzialità, dopo anni di suite chilometriche e brani difficilmente ascoltabili. Queste intenzioni sono accompagnate da una ripresa della melodia, una scelta che rende SIGN un album accessibile, soprattutto se paragonato alle sonorità estreme degli ultimi lavori. Il passo indietro non deve tuttavia trarre in inganno: stiamo sempre parlando degli Autechre, e le tracce dei loro esperimenti sono ben presenti, anche se diluite in un’atmosfera più leggera e gradevole. Possiamo quindi evidenziare il tentativo di realizzare, se non una sintesi, almeno una conciliazione tra i diversi animi della band, uno sforzo che nei momenti migliori di SIGN si può considerare riuscito.
Il lato umano degli Autechre non emerge dunque dai titoli dei brani (sempre oscuri, impenetrabili, privi di riferimenti individuabili), ma dalle note che squarciano i rumori di “M4 Lema”, simili a uno spleen malinconico e dolente. C’è anche spazio per la nostalgia: “F7” è un pezzo che lascia finalmente intravedere una forma, un crescendo che ci riporta ai tempi di Amber e Tri Repetae. La sensazione di quiete dopo la tempesta viene accentuata da “Metaz form8”, una composizione che ci catapulta in un’alba biomeccanica, con riferimenti alle atmosfere futuristico-decadenti di Blade Runner. E non mancano momenti ludici, come in “si00”, dove l’innesto di un cupo basso sintetico crea un contrasto con le tastiere “acquatiche” che fin lì ci avevano guidato. Nella seconda parte del disco non tutto funziona a meraviglia: le melodie aliene di “sch.mefd 2” e la minimal-techno di “psin AM” evocano quel mix di noia e fastidio che avevamo rimosso, mentre “th red a” ricorda un po’ troppo i Boards of Canada di Music Has the Right to Children o Geogaddi. Per fortuna arriva la conclusiva “r cazt”, dove le strutture melodiche, seppur cariche di inquietudine, lasciano intravedere una certa calma, o un timido spiraglio di luce.
“There Is a Light That Never Goes Out”, e l’impressione è che gli Autechre, al netto di due o tre tracce, abbiano realizzato un buon disco, semplice e ascoltabile come non accadeva da un decennio. Certo, è difficile leggere SIGN come una risposta ai tempi bui che stiamo vivendo, ed è altrettanto complesso accostarlo a Tomorrow’s Harvest o Monument Builders di Loscil, che esprimono in maniera chiara (e con risultati superiori) la tristezza per una natura stravolta dall’intervento umano. Il “segno” che ci offre il duo di Rochdale va forse inteso da un punto di vista sonoro, e può essere interpretato come volontà di iniziare un percorso diverso. Eppure nelle melodie di SIGN non possiamo non percepire un respiro, del calore, qualcosa che si avvicina vagamente al termine “emozione”.
E nell’alba (biomeccanica) di una primavera inquieta, non possiamo che ringraziarle di cuore.
Voto: 3,5
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