Le mie passioni del 2000: sostanzialmente due. Le girelle Motta e Álvaro Recoba.

Pedissequa conseguenza: due splendide minne da tredicenne imberbe e un parco friendzone da far invidia alla coppa dell’amicizia. Niente, ero inviso alla coolness in ogni sua declinazione. Mentre la popolarità dei tipi giusti veniva premiata con appiccicosi slingui e manovelle abbarbicate al cazzetto di turno, il mio grosso culo ed io sudavamo per scambiare dei Kadabra.

Insomma, mai una gioia. E poi c’era Lippi, voglio dire.

Un tipo così non poteva ascoltare la musica cool dei fighi della scuola, parliamone: i Green Day di “She”? Ma chi cazzo l’aveva mai vista, una She? Per cortesia i Blinc no, poi. Avessi avuto una pallottola, l’avrei riservata a DeLonge. Quella lagna puerile e nasale… Perdio, meglio un fioretto. I tre, in azioni e intenzioni, erano la perfetta copia di quelli che a scuola mi prendevano in giro.

E facevano cose così banali.

Uscire con una ragazza? Ma parlami di ciò che è davvero importante, su.

Il mentore di turno arrivò anche per me, alla fine. Solita gita scolastica, soliti ragazzi più grandi.

Fisiologica voglia di emulazione. “E’ uscito il nuovo dei Bad Religion. E’ forte.”

Bad Religion, che nome suggestivo. Diamogli una chance: quelle lezioni di catechismo al sabato proprio non andavano giù.

“The New America” ha salvato la mia adolescenza. Non ho mai capito perché tutti lo schifassero (e lo schifino). La ragione per me è semplice: siamo nel 2000, il pancroc è arrivato al tramonto del suo revival; i manierismi rock vecchio stampo non sono più (così) sexy per le major, sedotte e narcotizzate dal nu metal dei Korn, dei SOAD e dei Limp Bizkit. La compiacente maggioranza della critica e il popolo bue fanno il resto. E i BR diventano dei dagherrotipi a un laser game. Anacronismo inoffensivo.

Poi è vero che la faccenda Sony/Atlantic porta a dei suoni un po’ più morbidi, che Todd Rundgren in consolle simpatizzi per il radiofonico e che sia considerato un coglione da 4/5 della band, ma io non vedo drammi. Anzi, ascolto scelte coraggiose. E un parziale ritorno alle origini.

Perché “You’ve Got a Chance” altro non è che uno splendido manifesto di hardcore melodico, inno, come tutto il disco, della riscossa degli ultimi, della vendetta dei dimenticati. Ad ogni livello, a scuola come in trincea. Brian Baker affresca a suon di ottave uno dei brani più intensi della sua carriera: reagisci, vinci il gioco. Se la band di “No Substance” era una validissima alternativa, questa è proprio l’eccellente originale.

“The New America” è una continua ragnatela di dubbi amletici: lo si percepisce nell'inconscio timore per il futuro (un nuovo inesplorato millennio fa paura a tutti, come in “I Love My Computer” e in “It’s a Long Way to the Promise Land”) e nella schizofrenia dell’arrangiamento: brani à la No Control si intervallano a opzioni ritmiche interessanti e nuove, come la potente “A World without Melody”, in cui, comunque, la matrice californiana è più che riconoscibile.

Molti azzardi, quindi, ma (quasi) tutti vinti: solo un orecchio miope, infatti, potrebbe bollare come commerciali i continui sussulti ritmici di “1,000 Memories” e “A Streetkid Named Desire”: se nella prima l’incedere epico spadroneggia, prima di risolversi in un ritornello al trotto, la seconda colpisce per varietà compositiva: vera e propria “Bohemian Rhapsody” griffata Graffin, è forse il brano più sottovalutato dei Bad Religion. Sicuramente, molto meno accessibile di una “Let Them Eat War”.

L’anima irrequieta dell’album non si nega nemmeno una ballata: “Whisper in Time” commuove sinceramente, recuperando le coordinate emozionali dell’irruenta “Marked”. Delude un po’, invece, “Believe It”, l’unico brano cui partecipa anche Mr. Brett. Che dire? Midtempo sciapo che allunga il brodo, tre minuti inoffensivi che sottolineano come l’approdo a una major sia spesso un inflazionato e cieco capro espiatorio.

Oltretutto, i kids più oltranzisti dovrebbero davvero spiegarmi quando cazzo quest’album sia svenduto al mainstream, perché, oltre all’agitato power pop di “The Hopeless Housewife”, c’è un trittico da paura: “Let It Burn”, “The Fast Life” (con Hetson sugli scudi!) e soprattutto l’elegia di “Don’t Sell Me Short” costituiscono un parco pogo da brividi. Questa è l’altro pezzo da novanta del disco: nichilista e disillusa, malinconico arrembaggio ai dogmi più incrollabili ed ipocriti, polverizza ogni critica sul sellout dei nostri. Fosse stato scritto nel 1988, sarebbe nella chart di ogni crestone.

Non sottovalutate, quindi, The New America. Vero, nella Billboard 200 ci sono 87 posizioni fra lui e Enema of the State, ma solo perché il mondo è una merda. Inoltre, Fat Mike ha detto che fa schifo. Quale migliore garanzia di qualità?

P.S.: la copertina qui riprodotta è quella dell'edizione statunitense: la patriottica Atlantic, infatti, non gradì il concept originale (riproposto nell'edizione europea), raffigurante tre soggetti che porgono il saluto alla bandiera americana impugnando una pistola.

P.P.S.: è l'ultimo disco con il batterista Bobby Schayer, flagellato da una ferita alla spalla :-(

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