Ratcliffe e Buxton, sono due bonhomme circensi superbi nella loro follia, tutti intenti a sovvertire, a punkizzare i canoni dell’house più formaggiera e da borsetta.
Il circo elettronico che presentano – siori e siori - in “Remedy” è, per la chemical generation, il corrispettivo house di quell’operazione di re-styling musicale fatta con l’hip hop dai Chemical Brothers, con il ragga da Jon Carter o i Freestylers, con la techno dai Prodigy.
Cioè si prende un genere musicale già codificato, lo s’imbottisce di sostanze dritte ed espansive, lo si rivitalizza nell’aspetto più fisico e nerbioso, lo si rimpolpa con samples bizzarri e anarchici, lo si droga nei bipiemme sui Q-base, lo si strafà con i bassi più scalcianti e musicalmente scorretti che ci sono sul mercato.

Già il brano iniziale Rendez-vu, a ben guardare, fa sfoggio di un vitalismo sfrenato molto pasoliniano, da coatto blu, le vocine vocoderizzate ne fanno più una pantalonnade Residents in vacanza andalusa, versione Fear and loathing in Las Vegas. Il trattamento “chemical” è così evidente in brani muscolosi e superenergetici come Yo-Yo e Jump’n’shout , invasati come sono di strepitii, squittii, gorgoglii, mulinelli, stridori e strilli come fossero vorticose girandole elettroniche. In particolare di Jump and Shout, si nota la verve gioiosa e stradaiola che devasta il canovaccio raggage su cui si regge il brano.
L’entusiasmo e l’eccitazione che ci trasmettono questi due brani ci fa rivivere il clima da mondo-carnevale irridente che si respirava nella loro serata al Junction di Brixton, sud violento di Londra, dove l’illegalità regnava sovrana.

Già il Junction… perfino i poliziotti iperviolenti alla J. Ellroy se ne sarebbero stati volentieri alla larga, di taxisti regulars non se ne vedeva l’ombra, le uniche sirene che si udivano erano quelle non-stop delle pirate-stations che pompavano inclementi drum and bass e speed garage nella livida notte londinese; l’unica convenzienza era raggiungere il Junction, in quella Brixton cuore di tenebra, con circospetti drivers dalla pelle mulagra e sperare di non imbattersi in una gang metropolitana muy peligra di Bubba creoli.
Una volta guadagnata l’entrata al Junction, il disco-pub si faceva notare per l’estetica suburbana disadorna e malheureuse. Qui i Basement Jaxx riuscivano nel miracolo di ridare all’house la sua primigenia forza trasgressiva e la sua purezza primitiva, come succedeva nei bei tempi andati al Warehouse di Chicago.
Sì, al Junction di Brixton l’house tornava a far paura. Gli squeaks e i bleeps inzuppavano vorticosamente l’aria, le 808 mitragliavano, le bassline della 303 urlavano impazzite, distorcimenti fonetici si scapricciavano nelle volute della cupola… la mente volava non al Cocoricò ma ai blues-boat parties di Aphex Twin e alla derive sonore della Rephlex, la più irriducibile ed eccentrica delle techno-labels inglesi.

I Basement Jaxx al Junction erano i direttori d’orchestra di una masnada di irregolari circenses, debosciati devoti al credo delle esplosioni telluriche dei London beats e delle erosioni tettoniche delle falde sonore, che cercavano di uscire continuamente dal proprio corpo, in una spirituale visione della musica vissuta come gaia scienza, per ravvivavare il grigiore del proprio quotidiano.

L’house di Basement Jaxx è sì carezza ma di carta-vetro. Persino nella hit U can’t stop me, vocine residenti, bassi tumefatti e distorti, breakbeats stralunati, non accarezzano la suadente voce soul di Yvonne John Lewis; in Red Alert il vitaminico super-funk è troppo sopra le righe per essere consumato dalla massaia di Voghera. Troppo energetica, troppo sgretolante, troppo lasciva per essere una hit estiva, Red Alert , si segnala come pietra miliare della chemical house più birbona e irridente.
Altri singoli episodi si segnalano per le deflagrazioni di suoni rozzi e angolosi come nel funk-hip hop di Same old show che sembra interpretato dai Public Image in alcolica simbiosi coi loro camarades prophetiques Bollock Brothers. Altra milonga ubriaca da festa techno-pagana è Bingo Bango dove lo scoppiettante tempo house-ska risulta funzionale ad altre scalette da boutiques big beat come quelle di Bentley Rhythm Ace o Fat Boy Slim (che è un fervente ammiratore del jazz da cantina).
Non risultava strano, infatti, vedere luneggiare i vinili del duo di disco-punks in altre dj-boxes come in quelle della banda adrenalinica Wall of Sound o Skint tanta è la disperata vitalità che trasuda in ogni solco di “Remedy”.

Di contro risulta malinconica e struggente nel corso della masquerade la ballata Stop 4 Love, tanto per stupire il pubblico attonito dalle loro clownerie elettroniche con un numero ad effetto. “Vedete – sembrano dire – siamo capaci anche di questo” e giù con violini, armoniche e pianoforti in pieno svolazzo melò, tutto velluto, merletti e civetterie.
Poi non contenti sciorinano, con giochi pirotecnici, un gran finale ad effetto e colpiscono con il loro gancio migliore, quello sinistro, sbaraccando tutto con la roboante sigla finale Don’ t give up dove i synths gaglioffi smottano e nitriscono, poi si affievoliscono lasciando increspare una sofferta voce femminile soul, per poi rimontare più virulenti e cancerosi di prima. Una devastazione totale.

Poi dal nulla, la chiusura della giostra circense è affidata, per non sembrare troppo cattivi, a un calembour soft-soul, soffice soffice, melenso melenso.
Il dubbio affiora lesto: genii o furbi di tre cotte? Probabilmente tutti e due.

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