The best part of sex is walking home holding hands”.

Olympia è al nord, tra boschi gelidi, al confine con la Columbia Britannica. Qui sei felice perché il freddo ti taglia le mani. Qui, nello stato di Washington, nascono i Beat Happening nel 1982. Qui nasce la loro arte.

Seminali come pochissimi nell’era del post punk, il terzetto è formato da Calvin Johnson, Heather Lewis e Bret Lunsford.

Le loro fonti di ispirazione sono Stooges, Cramps, Young Marble Giants e il garage rock.

Johnson scriveva per la fanzine Subterranean Pop, presto fondamentale casa discografica, e lavorava per la radio del college. I tre incisero una cassettina e partirono per il Giappone. Non divennero “Big in Japan”, ma famosi in Australia. Rimpatriarono e dopo qualche EP, giunsero al primo album omonimo nel 1985. È inciso per la K, l’etichetta anti-major di Johnson.

Un album tanto spoglio e disadorno, quanto epocale.

Espressione di un suono minimale e senza pretese. Con un’innocenza ribelle e leggera.

Voci, chitarra, batteria. E niente basso. Un manifesto dello scialbore didascalico del lo-fi.

Il seguito è “Jamboree” del 1988. In cabina di regia c’è lo Screaming Trees Mark Lanegan. Il suono si fa un po’ più rumoroso, ma senza tradire l’impatto immediato ed esemplare della loro sprovvedutezza.

Si tratta di due album leggendari, di aperto pressapochismo elevato (in seguito) a sistema. Le canzoni sembrano provini o, al meglio, miniature. Ma sanno toccare prodigiosamente certe corde primarie. Come fa un ideale.

Arrangiamenti superficiali, ballate folk surreali, estetica punk, riduzionismo oltranzista, sono i tratti distintivi di tutto quello che vogliono essere.

Nel 1989 esce “Black Candy”, “Dolcezza nera”, che è twee pop, sadismo e cupezza. Ispirati, sempre più, ai Cramps, raggiungono tanto vertici pop, quanto sciocchi scenari teen-horror.

Se col quinto e ultimo album (“You Turn Me On”, prodotto nel ’92 da Stuart Maxhom, ex Young Marble Giants) rivedono la loro carriera attraverso trame più complesse, accostandosi anche al raga minimalista dei Velvet Underground, il quarto lavoro, “Dreamy”, è la terra di mezzo.

L’album ha il torto di uscire nel 1991, anno di opere colossali come “Loveless”, “Spiderland”, “Screamadelica”, “Nevermind”, Laughing Stock”, “Out Of Time”, “The Black Album”, ”Ten”, "Sailing the Seas of Cheese", "Achtung Baby", “Blue Lines”, “Goat”, The Low End Theory, Gish”, "Blood Sugar Sex Magik".

Johnson pare distratto. È lanciatissimo come discografico e organizza perfino l’alternativa a Lollapalooza, evento che giudica troppo modaiolo, inventando l’International Pop Underground e chiamando a raccolta Fugazi, Bikini Kill, L7, Built To Spill, Melvins, Mecca Normal.

Dreamy” è un lavoro incerto tra maturità e ingenuità. Tanto sprovveduto da apparire quasi sofisticato. Tutti i dieci brani sono cofirmati dai tre. Però il contributo della Lewis al songwriting è cospicuo e tratteggia orizzonti di malinconia. A volte il suono è meno crudo e scarno. I tre si avvicendano, come sempre, agli strumenti. I testi restano sardonici. La produzione è di Steve Fisk (futuro Halo Benders).

Calvin Johnson ci compiace ancora con la sua voce baritonale, profonda, col suo canto indolente, asettico o scuro. Heather Lewis, invece, con la sua voce infantile, sdrucciolevole e un canto dolcemente mesto.

Tra i brani: sensuale, convulsa è “Nancy Sin”, dove il riff di chitarra elettrica è deciso e graffiante; Johnson fa l’Iggy Pop spiritato, così come in “Cry For Shadow”.

In “Left Behind” canta la Lewis con una tenerezza evasiva e sconsiderata, ma senza grandi doti canore. L’accompagnamento è minimo, sbuffato, ripetitivo. La canzone appare come una filastrocca (“Eyes bright/ always right/ big strong fight”). “I got my own way/ Left behind/ Left behind/ Left behind/ The dirt stays inside with me”. “Faccio a modo mio/ Lascio tutto indietro/ Lascio alle spalle/ Lascio da parte/ Ma lo sporco rimane dentro di me”).

Collide” è una nenia con sgangherate accelerazioni.

Il motivo più bello, infine, è “Fortune Cookie Prize”, una composizione delle più tipiche dei Beat Happening, almeno per la “metà” Lewis. L’accompagnamento è dominato dai tamburi, la chitarra muove con piacevoli cadenze, pennate semplici ed efficaci. Il child-like sound è qui al suo apice. Di solito era Johnson a cantare i pezzi più notevoli degli LP, vedi “Our Secret”, “Bad Seeds”, “Indian Summer”, “Cast a Shadow”, “Black Candy”, “Tiger Trap”, qui tocca a lei (le altre sue frecce sono “In Between” e “Godsend”).

Dreamy” non è il loro album più rappresentativo, anzi. Mezzo punto almeno sotto gli altri. Ma è quello, forse, dove la Lewis si esprime al meglio. La foto di copertina, inoltre, è da encomio.

Tra una innocenza minimalista e una misurata irriverenza, tra il rock e il pop, tra l’amore per i Cramps e i vagiti twee, l’indie americano raggiunge comunque con questi tre nerd di Olympia, WA, una perfezione trasversale.

Poi il loro spontaneismo, senza tecnica ma ispiratissimo, li colloca ai prodromi dell’estetica lo-fi, dopo il dilettantismo inarrivabile degli Half Japanese e l’integrità incontaminata di Jadek.

You got me black and blue inside of you

I'm racing to the edge of my chain”.

Se andate a Seattle, ricordatevi di passare per Olympia. Non portatevi i guanti. Lasciatevi tagliare le mani dal freddo. Pare renda allegri. Poi, la spigolosità è creativa.

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