"The whole experience was odd, unreal, out of normal focus". Benjamin Britten - Death in Venice - monologo di Aschenbach, atto primo, scena IV.

Già per il fatto di essere il testamento artistico di Benjamin Britten, all'epoca debilitato da problemi cardiaci e ormai prossimo alla fine, Death in Venice mi appare come l'Ultima Thule dell'opera tutta. Che sia effettivamente così o si tratti semplicemente di un mio preconcetto, rimane innegabile la natura profondamente conclusiva e definitiva di questo capolavoro di ineffabile, dolorosa, straniante bellezza. Pelléas et Mélisande di Debussy (1902) e Death in Venice (1973), due opere estremamente divese ma con una profonda similitudine in comune, sono a tutti gli effetti gli estremi cronologici del decadentismo in ambito operistico, una corrente stilistica che non mira a stravolgere gli schemi tecnici e le costruzioni melodiche alla maniera di compositori come Berg e Schoenberg, piuttosto a (de)costruire partendo dalle sovrastrutture romantiche/wagneriane, elaborandole in qualcosa di più disadorno, senza connotazioni "eroiche" e sviluppando il più possibile gli espetti simbolistici e psicologici; le linee guida di Death in Venice sono queste, sostanzialmente.

Ricapitolando brevemente, dopo l'ironia squisitamente barocca del Midsummer Night's Dream (1960) Britten abbandona temporaneamente l'opera, ritornandovi undici anni dopo con Owen Wingrave, che per alcuni aspetti anticipa Death in Venice. Si tratta di un lavoro splendido che merita a sua volta di essere approfondito in dettaglio e non considerato semplicemente come una sorta di preludio a DiV, lo cito soprattutto perchè con Owen Wingrave riprende la collaborazione con la librettista Myfanwy Piper, già al fianco di Britten in The Turn of the Screw. TotS-Owen Wingrave-Death In Venice, livelli artistici semplicemente mostruosi sia da parte di Britten che della Piper, un'accoppiata paragonabile solo a Strauss-Von Hofmannstahl nel contesto dell'opera novecentesca. Come le altre due opere firmate Britten-Piper, Death In Venice è in due atti a loro volta suddivisi in molte scene e, come e in maniera ancora più accentuata rispetto a Owen Wingrave, di fatto è una specie di monodramma con interventi esterni.

Gustav Von Aschenbach, attempato scrittore in crisi d'ispirazione e fulcro dell'intera vicenda, è un personaggio con una natura nettamente duplice: verboso, articolato, pienamente conscio di sè stesso e della sua superiorità intellettuale nei soliloqui, ma totalmente incapace di esprimere le proprie emozioni in maniera concreta e relazionarsi con il mondo esterno. Nella sua testa sente le voci di due simboliche divinità in conflitto, Apollo e Dioniso: Apollo, il suo ideale artistico, sembra esistere unicamente nel suo inconscio, lo si sente in distanti, lontane fantasie di antichi giochi olimpici sognati dal protagonista (una scena sublime, ultraterrena, costruita su corali e melodie riprese dal Primo Inno Delfico, originale melodia della Grecia classica), Dioniso rappresenta una dimensione molto più concreta (il caos e la "bassezza" del mondo circostante) ed è una presenza pervasiva e inquietante, che si incarna fisicamente in personaggi (il viaggiatore, il damerino attempato, il gondoliere, il direttore dell'albergo, il capo dei suonatori) di cui Aschenbach subisce passivamente l'influenza, scivolando, in balìa della propria debolezza, verso l'ineluttabile epilogo; incomunicabilità e fatalismo, qui sta la profonda similitudine con Pelléas et Mélisande.

è Death in Venice un'opera difficile, modernista, ostica, spinosa? Secondo me no, queste non solo caratteristiche che appartengolo a Britten, piuttosto la definirei un indugiante, ammaliante dipanarsi di suoni e voci, ora plumbeo, ora etereo, che ciclicamente esplode in momenti di orchestralità ariosa e romantica, ad esempio il preludio della scena III del primo atto, un frammento espressionista che non suonerebbe fuori posto nella Turandot di Puccini, seguito da una breve aria, ondeggiante, come per evocare il beccheggio di una gondola, con cui Aschenbach esprime le sue aspettative e speranze, "Ah, Serenissima! Where should I come but to you to soothe and revive me, where but to you to live that magical life between the sea and the city? What lies in wait for me here, ambiguous Venice, where water is married to stone and passion confuses the senses". Nei soliloqui del protagonista l'orchestra tace, lasciando un semplice, discontinuo accompagnamento pianistico a sottolineare le sue tortuose ma lucidissime introspezioni: questi sono gli unici momenti in cui è pienamente in controllo di sè stesso, come ho già detto. Poi c'è Tadzio, la fonte d'ispirazione, che per Aschenbach rappresenta un ideale di bellezza destinato a rimanere completamente astratto; tra i due non si instaura nessun tipo di rapporto, l'arte ispirata da questo soggetto rimane unicamente nelle idee del protagonista, dolorosamente incapace di agire e dare una forma tangibile alle proprie sensazioni. Le entrate in scena di Tadzio sono sottolineate da poche, tintinnanti note di vibrafono, ad evocare una grazia incompiuta ed evanescente, per il resto è un ruolo completamente muto, come il conte Henrich nell'Angelo di Fuoco di Prokofiev, anch'esso un oggetto del desiderio idealizzato e irraggiungibile.

Tuttavia non credo che il non-rapporto tra Aschenbach e Tadzio sia il fulcro principale di Death in Venice, o meglio, è uno dei tanti aspetti, il più evidente, della più ampia incomunicabilità tra il protagonista e tutto il resto del genere umano. Per rendere l'idea di questo concetto in forma più ampia, niente di meglio che la scena VI del primo atto, una scena di mercato, tutt'altro che colorita e pittoresca dal punto di vista di Aschenbach, che si ritrova perso tra una folla di venditori e approfittatori, oppresso dalla canicola estiva e da quel sovrapporsi di voci, intrappolato in una massa informe, i cui pensieri sono quanto di più lontano possibile dai suoi. Quanta potenza drammatica in una scena che, musicalmente, è tutt'altro che enfatizzata, e quanto mi sono direttamente familiari quelle sensazioni. E anche per Britten, evidentemente, dato che questa è di fatto una riedizione più cerebrale di uno dei suoi momenti più iconici: una chiassosa taverna, un falsamente rassicurante senso di comune appartenenza paesana, all'improvviso entra l'outcast, Peter Grimes, e si mette a cantare "Now the Great Bear and Pleiades, where Earth moves are drawing up the clouds of human grief, breathing solemnly in the deep night. Who can decipher in storm or starlight the written charachter of a friendly fate...". Curioso notare come in Death in Venice la morte non appare direttamente in scena, è più una presenza che aleggia su tutto e tutti, specialmente nel secondo atto, molto più cupo e quasi del tutto privo delle parentesi romantiche del primo; una continua spirale discendente, decadenza e ancora decadenza, sabbie mobili, fino ad arrivare ad un finale stranamente aperto, sfumato; una melodia crepuscolare che si spegne lentamente, accompagnata dai già noti leitmotiv di vibrafoni e xilofoni. L'opera si conclude così, con una dissolvenza che cancella tutto, in un senso di innaturale irrealtà. E ancora una volta riaffiora Peter Grimes, la sua barca che affonda in mare aperto, distante. "Just one of those rumors..."

E poi c'è Venezia: una delle ambientazioni più forti e più caratterizzanti possibili. Come e forse in maniera ancora più profonda rispetto ad opere come I Due Foscari e La Gioconda, Death in Venice è legata indissolubilmente al suo scenario, anche se questa Venezia è qualcosa di radicalmente diverso da quella di Verdi e Ponchielli. Da una parte è vista come un luogo dell'anima e una fonte d'ispirazione, dall'altra a tutti gli effetti una città morta, trappola per turisti, afa soffocante, acque stagnanti, pestilenza, a tutti gli effetti un'estensione e un riflesso speculare del protagonista stesso. Domanda che sorge spontanea: Aschenbach è un alter ego dello stesso Ben Britten? Si, sicuramente, almeno di alcuni aspetti della sua personalità, come lo sono anche Owen Wingrave, il capitano Vere in Billy Budd e, in senso forse un po' più lato, lo stesso Peter Grimes. Britten ha saputo raccontarsi attraverso le sue opere in un modo tutto suo e, per tanti motivi, riesco a capirlo e interiorizzarlo più di tutti gli altri "giganti". è così appropriato, così perfetto che la sua produzione teatrale si chiuda proprio con Death in Venice che, nonostante la sua eccezionalità, si integra perfettamente con tutto il resto, una sublime scena di un affresco molto più grande, l'intero repertorio operistico britteniano. In un'analogia ancora più calzante, Death in Venice è come la foce di un fiume, ormai stanco, prossimo a gettarsi in mare ... "Ist dies etwa der tod?" ... Si, nonostante tutto c'è una sottile, subliminale sensazione di serenità e appagamento alla fine di tutto; è complicato e forse anche inutile spiegarlo in poche parole, chi conosce Britten lo sa e lo percepisce.

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