“The race is about to begin, the race is about to begin”
Siamo senza alcun dubbio in un periodo molto prolifico per la scena britannica di stampo post(?)-post-punk, soprattutto per quelle band germogliate dall’ambiente del pub londinese The Windmill. Dopo l’interessante esordio degli Squid Bright Green Field (2021), il secondo lavoro dei Black Country, New Road Ants From Up There (2022), ha suscitato clamori di critica e di pubblico (soprattutto tra le community di giovani ascoltatori sparse in giro per il web).
È adesso il turno di Hellfire, ultima fatica dei Black Midi rilasciata dopo poco più di un anno dal loro secondo album Cavalcade. La giovane band composta da Geordie Greep, Cameron Picton e Morgan Simpson si è distinta fin dall’inizio dai propri colleghi per l’estrema mutevolezza del sound: se l’esordio Schlagenheim si caratterizzava per groove alienanti alla Talking Heads, chitarre taglienti nella tradizione post-hardcore à la Shellac e testi paranoici e teatrali nello stile dei Pere Ubu, Cavalcade aveva invece lasciato interdetti molti fan della prima ora: composizioni più ampie e strutturate, sound meno noise e più ricercato, vene art-rock e fusion.
Hellfire è la naturale evoluzione di questo percorso e, contemporaneamente, la sua naturale degenerazione.
La prima, lampante impressione che emerge al primissimo ascolto è che questo disco è un bombardamento. In poco meno di 40 minuti siamo bersagliati di materiale musicale dissonante, contraddittorio, sarcastico e contaminato. I brani hanno una lunghezza media di cinque minuti ma, per via del modo in cui sezioni, arrangiamenti e dinamiche sono cuciti insieme, sembrano molto più lunghi. Tutto ciò porta logicamente alla seconda, lampante impressione: il post-punk è passato definitivamente in secondo piano. Rispetto a cosa? La risposta più intuitiva sembra essere il progressive rock. Queste due parole, soprattutto dopo il condizionamento a cui anni di “critica” dalle vedute particolarmente strette e di pedissequi epigoni ci hanno sottoposto, suona quasi come un controsenso un po’ blasfemo e offensivo se si considerano le radici punk del gruppo e dell’intera scena da cui esso proviene. Eppure, sebbene le influenze settantine siano molto presenti, Hellfire è lontano dal blando citazionismo di Steven Wilson o dal tecnicismo muscolare degli Animals As Leaders.
La verità è che i Black Midi stanno, non senza una certa fatica e qualche passo falso, plasmando il loro linguaggio. Dopo i timidi passi mossi in Cavalcade per ampliare i propri orizzonti compositivi, in Hellfire i Black Midi spingono sull’acceleratore con un entusiasmo e un’anarchia disarmanti. L’album è densissimo di idee e il materiale a cui Greep e soci attingono è estremamente vario: Sugar/Tzu si regge su un fulminante riff minimalista di ispirazione “Glass-iana”; Eat Man Eat è un flamenco-punk; Welcome To Hell contiene una sezione hardcore; Still ha una coda ambient; 27 Questions è divisa in due parti da un intermezzo vaudeville. Questa frammentarietà è uno degli aspetti principali del disco: è un approccio che potrebbe essere definito post-progressive, in cui elementi di vari linguaggi vengono mischiati consapevolmente per creare un decadente diorama di rimasugli stilistici. Le melodie e le armonie sono curiosamente reminiscenti del gusto jazz e dei musical degli anni ’30 e ’40 (The Defence ne è uno degli esempi più riusciti). Gli arrangiamenti sono aggressivi e impietosi, come in The Race Is About To Begin dove Greep sciorina il lunghissimo testo sopra una cavalcata strumentale da capogiro. L'immagine di copertina, che rappresenta un paesaggio onirico formato da rifiuti sci-fi e modelli 3D cestinati, è una fedele testimonianza della fredda brutalità con cui questi diversi stili e linguaggi vengono fusi incestuosamente e spregiudicatamente per essere poi presentati dietro un sorrisetto beffardo.
Hellfire è un disco che richiede molto all’ascoltatore ed è chiaro come i punti deboli del disco siano molto spesso speculari ai punti di forza: a volte le strutture sono frammentarie in maniera eccessiva, i testi dalla vena demenziale non sempre funzionano a dovere, le influenze (per citare le più ovvie: Genesis, King Crimson, Cardiacs, Primus e This Heat) a volte vengono fuori un po’ troppo prepotentemente. Sono tutti sintomi di una formula che è maturata notevolmente, ma che ancora non è arrivata a destinazione. Ma, considerando che tutti e tre i membri dei Black Midi hanno poco più di vent’anni, non è irragionevole sperare che la strada sia quella buona.
A tal proposito occorre parlare del rinnovato sound della band: nonostante il disco a volte soffra di scelte discutibili di produzione e di mixing, sembra finalmente che si stia consolidando un linguaggio strettamente Black Midi. Abbandonate quasi completamente le suggestioni noise e post-hardcore dell’esordio, Hellfire ricerca il massimalismo attraverso una strumentazione quasi da big band: sezione fiati completa, archi, fisarmoniche, tastiere, addirittura una melodica; gli arrangiamenti appaiono molto più solidi rispetto a quelli di Cavalcade, alle volte vertiginosamente vuoti e alle volte impenetrabilmente pieni e minacciosi. Se non per due brani cantanti da Picton, la voce stridula e quasi cartoonesca di Greep si conferma come un marchio di fabbrica del gruppo, migliorando nella performance rispetto ai dischi precedenti. Sarebbe inoltre criminoso non ribadire l'apporto di Simpson, la cui versatilità ed esuberanza batteristica sono ormai simboli irrinunciabili dei Black Midi.
In conclusione, reputo Hellfire il disco migliore (finora) dei Black Midi e sicuramente una delle uscite più interessanti del 2022.
Consiglio vivamente a tutti di prendere un bel respiro e fare un tuffo nel fuoco dell’inferno.
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