“What’s this shit?”. Greil Marcus
"Sia la tua casa una casa di riunione per sapienti, e impolverati con la polvere dei loro piedi, e bevi le loro parole fino a saziartene". Talmud babilonese
Autoritratto? Autoparodia? Auto mutuo aiuto?
Giugno 1970, “Self Portrait” è Bob Dylan che ha alle spalle quasi esclusivamente capolavori e vuole superarsi. Ma anziché cercare di passare, una volta in più, attraverso la porta stretta della creazione artistica, sceglie un’altra strada: il sarcasmo e la distrazione.
Stanco di essere vate o araldo, vuole fare il buffone di corte. Il sinistro istrione che sogghigna dinanzi al pubblico e, a tempo perso, inanella cori, abbozzi, acquerelli svogliati, pezzi piatti. Tesse la trama esile di un mondo diafano che scivola, senza ragione, verso l’inutile pallore della pagina vuota. Biancheggia. Con un guizzo. Con lo stesso spasmo del pulviscolo trafitto da un raggio di sole su un mobile a scomparsa.
Dylan porta stavolta in musica il buono delle offerte alimentari. L’ordine Neziqin della Mishnah, cioè i “Casi di danni” (custodia di oggetti ritrovati, furto, testimonianze, padri). Il riciclaggio (The Boxer con le due voci fuori sincrono, una Blue Velvet inutile, la peggio versione immaginabile di Like A Rolling Stone). O che abbia in mente un gesto post-dadaista? Arte meno fattiva, più concettuale? Beh, tutti i cavalli affaticati al sole del coro angelico iniziale, lo dice, non gli permettono più di cavalcare, di correre; si introduce con un pezzo country-pop operistico, dove i coretti carezzevoli spingono lo sguardo tra le nuvole. E un po’ di sole c’è. Meglio allora sostare su una strofa fissa. E perché proseguire? Sciolti i legami con l’intensità irriducibile dei lavori precedenti (testi, musiche, interpretazioni, compattezza d’insieme), il profeta della denuncia libertaria e l’innovatore del linguaggi compositivi svaniscono. Dopo l’incidente in motocicletta Dylan è più riflessivo (morte, destino, libertà, ecologia), meno visionario. Si ritira a vivere in campagna, fa il “fantasma, che è una persona soltanto”. Stanco delle ingerenze private, delle contestazioni (Festival di Newport, mancata adesione ai movimenti civili), non vuole più sentirsi bloccato “come una farfalla trafitta da uno spillo”. Allora provoca sconcerto attraverso la natura imprevista di un contenuto modesto. Mette dentro un doppio long playing (un long long playng): pelle di coniglio, la finta tartaruga di Alice, un gioco di specchi al ralenty, bastoncini di zucchero, anemoscopi, matasse di polvere, setole piegate di spazzolino, materiali poveri. E che sia criticare i consumi con canzoni conservate al naturale!
L’artista di Duluth in qualsiasi modo l’album non l’ha fatto tutto brutto brutto. Affatto. Piuttosto tiepido, svogliato come tanti giorni irrisolti. Vedi come canta. Voce nasale e raschiata, pochi ronzii, qualche mormorio armonioso. Canta come l’allodola! O col canto di una rana da un vano d’ombra. E ci fa vedere anche l’azzurro torbido, proprio con gli occhi di chi ascolta. Tra parentesi, proprio come nei tratti del quadro di copertina: orribili, rozzi, incerti, grigiastri, primitivi. Poi dalla penombra passa al buio di una sola notte della terra, ma prima e dopo un ininterrotto, storpio pomeriggio ebete e assolato. Che cappio di autoritratto! Così incomprensibile da sembrare riuscito! E pure accettabile alla luce delle decadi successive, mentre l’autore lo rigettava. Ma si entra anche con “Self Portrait” in dialogo con Dylan, un dialogo che non ha inizio e neppure una fine.
Robert Zimmerman ha qui assolto appieno il suo compito di essere Bob Dylan? Ha pensato solo a liberarsi dagli altri? Dai propri sé? Uno scherzo, uno screzio? O un enigma? Non poeta, non vate, non profeta, non rivoluzionario, non utopista. Che Dylan è?
«Adesso vorrei andare proprio come gli altri
Mi piace il mio zucchero dolce
Ma saltare le code e fare in fretta
Non è la mia tazza di carne
Tutti sono là fuori
A imboccare piccioni sui rami
/… /
Il miao del gatto e il muuu della mucca
posso recitarli tutti
Dimmi dove ti fa male
E ti dirò chi devi chiamare
Nessuno riesce a prendere sonno
C’è sempre qualcuno che rompe le scatole
Ma quando Quinn l'eschimese arriverà
Tutti potranno sonnecchiare
Venite tutti di fuori, vieni tutti o gente
Non vedrete mai nulla come Quinn il possente»
Dylan è "Mighty Quinn" (la versione originale sarà sui “Basement Tapes”), Quinn l’eschimese che arriva. Un messia anti-messianico, un messia povero, qualunque, altro che quello delle gocce di piombo della dura pioggia che cadrà.
Siamo alle prese con un album “maledetto”. E sistematico, e confusionario. Sistematico all’apparenza, confusionario nella sostanza. Facciamo i conti: doppio LP, 24 tracce, 14 sue, 4 inedite, 10 riprese, 6 adattamenti di pezzi tradizionali, 8 cover, per 74 minuti trascurabili di musica cripto-enigmatica. 50 musicisti che, a diverso titolo, partecipano alle registrazioni. Ma una strumentazione spesso minima. Toni dimessi, piattezza generalizzata, ritmi stiracchiati, set list inesplicabile, mancanza di climax. Country folk e tagli dal vivo con i fischi del pubblico, e un suono di regola sconnesso. Sciatto.
Sono i danni di un ego cresciuto a dismisura e una dannata consapevolezza del proprio talento? Dylan ha 28 anni. Dopo il lavoro matto e disperato dei '60, dopo il dibattuto incidente motociclistico, dopo un certo impasse, la sua musica vuole diventare più semplice e armoniosa? E intanto va ad attingere al country e agli standard? Dal particolare passa all’universale, cambia le prospettive e i codici? Il mistero è affascinante. Le canzoni un pochino meno:
la discreta “Take a Message To Mary“ degli Everly Brothers, le approssimative cover degli aspiranti Dylan (Paul Frederic Simon, Gordon Lightfoot), “In Search Of Little Sadie” con giri armonici assurdi e improbabili, “Wigman” epitome inverosimile dell’album. La bucolica “Copper Kettle (The Pale Moonlight)”, di A. F. Beddoe, portata al successo da Joan Baez, è forse la traccia migliore (“Daddy made whiskey, and granddaddy did too/ We ain't paid no whiskey tax since 1792”).
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