Tradurre è tradire.
Se a me un’espressione come “blood on the tracks” fa pensare a un tipo sanguinante che cammina e mentre cammina lascia delle impronte (tracks) piene di sangue (blood), e poi vado a leggermi le Lyrics di Bob Dylan tradotte da Alessandro Carrera per l'edizione Feltrinelli e Carrera traduce “sangue sui binari”, di primo acchito storico il naso e penso nooo, è sbagliato! Ma non è sbagliato, perché tracks vuol dire anche binari. E se il buon Carrera, che è un traduttore eccellente oltre che un espertissimo esegeta dylaniano, in quell’espressione ci vede un binario della ferrovia tutto insanguinato perché qualcuno si è buttato sotto al treno, tant’è. Ma io non sono d’accordo. Che poi tracks sono pure le tracce di un disco, le canzoni. Magari Bob voleva semplicemente dirci che le sue canzoni sono piene di sangue. O magari voleva dire tutte e tre le cose insieme, perché ognuno ci vedesse quello che preferiva. Sì, è chiaramente così. Però per tradurre devi scegliere una delle tre. Non se ne esce.
Ecco, appunto. Blood on the Tracks è un disco da cui non si esce. Non se ne esce perché appena lo fai partire e inizi a sentire il blood che scorre per quelle tracks (qualunque cosa siano), ci rimani invischiato, impigliato, aggrovigliato dentro, tangled up, appunto. Tangled up in blue.
Tangled Up in Blue è la prima delle dieci tracce insanguinate. Anche questo, come lo traduci? Tangled up, abbiamo detto, è ingarbugliato, aggrovigliato, invischiato, impigliato come dentro una rete inestricabile che più ti dibatti e meno scampo ti lascia: è un'immagine molto chiara e molto potente. E Blue? È un colore (il blu). È uno stato d’animo (tristezza, malinconia, male di vivere). È un genere musicale (il blues). È un album di Joni Mitchell (stupendo). È tutte queste cose insieme, forse si può escludere l'ultima, forse. È il colore del filo ingarbugliato che avvolge vicende, pensieri e personaggi e li tira da un punto all'altro dello spazio e del tempo, tessendo le fila di una storia che non si capisce bene dove e come inizi né come e dove finisca, evidentemente perché il filo blu è troppo ingarbugliato per svilupparsi in maniera lineare. Il filo blu è la vita. La vita è blu. La vita è ingarbugliata. La vita è tristezza e malinconia. La vita è blues. And I know no one can sing the blues like Blind Willie McTell. Ma questa è un'altra canzone.
"Io volevo che quella canzone fosse come un quadro", ha detto Bob in un'intervista del 1986. Ut pictura poesis. Memore dell'antico insegnamento oraziano il Bardo di Duluth intinge il suo pennello nel blu e con rapide pennellate, precise e sfuggenti al tempo stesso, delinea non uno, ma sette quadretti in cui un io e una lei si incontrano, si perdono, si ritrovano, si abbandonano, si dimenticano e si ricercano per poi riperdersi di nuovo: addii sotto la pioggia, fughe rocambolesche, torbide storie di "traffico di schiavi" (prostituzione? proiezioni rimbaudiane?) e a scandire le sette strofe eccoli, puntuali, i maledetti fili blu che avvolgono i due protagonisti e li legano stretti e li invischiano, si impigliano ai lacci delle scarpe e li fanno inciampare (testuale: "she bent down to tie the laces of my shoe, tangled up in blue"), e poi quando tutto sembra andare per il verso giusto ti afferrano e ti trascinano sul fondo senza scampo: "e alla fine il pavimento cedette, io sprofondai, l'unica cosa che potevo fare era tirare a tirare dritto come un uccello in volo rimasto impigliato nel blu". Sono forse liberi gli uccelli dalle catene che li imprigionano al cielo?, recitava una Ballad in Plain D di svariati anni prima.
E al centro di tutto, la scena chiave. "Lei aprì un libro di poesie e me lo porse, erano di un poeta italiano del tredicesimo secolo, e ognuna di quelle parole suonava così vera e risplendeva come un tizzone ardente che traboccasse dalla pagina, come se me la fossi scritta nell’anima per te". Chi sarà mai questo poeta italiano? "Plutarch", risponde Dylan all'intervistatore di turno, e sembra quasi di vederlo sogghignare beffardo. Che burlone, Bobby! Fa finta di confondere Plutarch con Petrarch. Fa finta di non sapere che Petrarca è vissuto nel quattordicesimo secolo e non del tredicesimo. Fa finta di concedere che il libro citato nel testo possa essere qualcosa di diverso dal Canzoniere di Petrarca.
Ad ogni modo il filo blu non si sbroglia. Abbiamo dato per scontato che i protagonisti siano due. Ma se invece fossero sette storie diverse, con sette uomini diversi e sette donne diverse, che in comune hanno solo il groviglio inestricabile che li lega e li separa? Se fossero sette narratori diversi e sempre la stessa donna? "We always did love the very same one, we just saw her from a different point of view", conclude Dylan nella versione dal vivo inclusa in Real Live. Eh già.
E se fossero sette donne diverse e un unico narratore? Blood on the Tracks è un disco profondamente autobiografico, per cui concediamo un attimo che il narratore sia lo stesso Bob. Allora ecco che riemerge il fantasma della sofferta relazione (da poco tristemente conclusasi) con Sara Lownds, ecco che Montague Street diventa il Greenwich Village degli anni Sessanta con "musica nei locali la sera e rivoluzione nell'aria" e lei assume le sembianze familiari di Joan Baez, mentre quella del libro di poesie italiano potrebbe benissimo essere l'italianissima (di origini) Suze Rotolo, quella che si vede sulla mitica copertina di The Freewheelin' Bob Dylan. Ma alla fine questo sembra non importare, perché alla fine, nell'ultima strofa, il nostro eroe è ancora on the road (Kerouac sempre presente) diretto verso un nuovo joint (un "locale" come il topless place di qualche strofa sopra, o piuttosto un "crocevia", metaforico o meno, sulla sua strada?) e tutte le persone che ha conosciuto e di cui ha parlato gli sembrano "solo un'illusione", un po' come i protagonisti di Desolation Row, quelli a cui aveva dovuto "cambiare i volti e dare a tutti un altro nome" perché sarebbero stati altrimenti troppo insignificanti per parlarne. Qua, ad ogni modo, tutti sono liquidati come mathematicians e carpenter's wives. Matematici e mogli di carpentieri.
Forse è solo un caso che nel 1965 Bob avesse dichiarato "Quelli che canto io sono brani matematici", il che farebbe di lui in questo senso un "matematico". Come forse è solo un caso che il suo vero cognome sia Zimmermann, e che in tedesco zimmermann voglia dire carpentiere.
Tradurre è tradire.
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