Sì, questo è un grande film, scritto, diretto e prodotto da un regista che già anni prima con "The Host" (2006) aveva fatto vedere di che pasta era fatto. E che ci regalò, con "Parasite" (uscito in Italia nel novembre del 2019) l'ultimo grande film prima della serrata, tra l'altro, delle sale cinematografiche. Arrivò da noi con una Palma d'oro sulle spalle, e di lì qualche mese avrebbe sbancato agli Oscar vincendone 4 nelle categorie più importanti (Miglior film; Miglior regista; Miglior sceneggiatura originale; Miglior film straniero) e quell'anno in gara c'era il Martin Scorsese di "The Irishman", per dire.

E' un film straordinario per tanti motivi, ma uno in particolare: è spiazzante. Parte, sostanzialmente, come una commedia (una famiglia, padre-madre-due figli, stipati in una specie di scantinato nell'infernale labirinto edificativo di Seul), poi diventa ancora più divertente (la suddetta famigliola si fa assumere, con modi discutibili, da un'altra famiglia, questa invece ricca e benestante), poi diventa un dramma (scoprono qualcosa nello scantinato dei ricconi), si trasforma in una specie di thriller (non bisogna far sapere nulla ai ricconi di ciò che si è scoperto) e, infine, diventa un qualcosa a metà tra un film di Tarantino e un qualunque film sudcoreano zeppo di violenza e sangue. Si parte sorridendo, si finisce a coltellate.

"Parasite" è l'estrema sintesi di ciò che dovrebbe essere un film moderno. Finita l'epoca dei grandi dialoghi (anche Tarantino, nel suo ultimo "C'era una volta a... Hollywood" faceva chiaccherare troppo i personaggi e alla lunga stancava), entrati, volenti o nolenti, nell'epoca del "tutto veloce" e "tutto subito", e del cambiamento repentino che, a volte, non dura più di un giorno, ecco un film che cambia in continuazione, fa del dialogo un arma tagliente (soprattutto nel primo tempo) ma non il focus principale e che sa, tra le pieghe, raccontare un'umanità che vive ai margini della società disposta a tutto e una seconda umanità, più colta (forse) che vive agiatamente come se nulla possa più meravigliarli. Il regista critica aspramente entrambe le facce di questa società: non esistono demarcazioni perfette tra buoni e cattivi, lo sono entrambi, pure i poveri. E chi sono i parassiti del titolo, alla fine, non è dato sapere, potrebbero essere entrambi, ognuno a proprio modo.

Scrisse un critico:

"Bong Joon-ho ha costruito una carriera sulla distorsione del fantastico, con affreschi plastici di larga scala, ma in Parasite non ci sono creature, né immersioni nel soprannaturale: solo due famiglie, due case, e la brutale dissezione di una disuguaglianza di classe nella società tanto coreana quanto globale".

E' esattamente questo il punto, a mio avviso. Una dicotomia fin troppo evidente tra due mondi che, però, vivono nello stesso mondo pur non parlandosi e non conoscendosi. Il mix tra questi due universi porta ad uno scoppio, ad un Big Bang che esploderà in una violenza tanto brutale quanto inevitabile (la famiglia povera si diverte, mentre i padroni di casa sono fuori, a giocare nel fare i ricchi, come se il loro scopo vitale fosse una innaturale finzione piuttosto che una naturale quotidianità).

Molte le scene da mandarsi a memoria: l'incredibile colpo di scena a metà film; il finale spiazzante e definitivo; la quiete prima della tempesta con il sottofondo, a caos giunto, di una canzoncina anni '60 con la voce di Gianni Morandi (si tratta di "In ginocchio da te"; Bong Joon-ho dichiarò che suo padre aveva questa musicassetta con alcune canzoncine italiane di quegli anni lì, chissà come ci è finita in Sud Corea, e da piccolo ascoltò, tra le altre, "In ginocchio da te", anni dopo pensò bene di utilizzarla in un suo film, l'effetto che ne nasce, direi soprattutto per noi italiani, è esilarante).

Un film bellissimo, forse un po' troppo lungo (2h e 12'), che si perde un po' via nell'ultimo quarto d'ora, tirandola un po' per le lunghe, ma, ormai, il meglio era già stato dato.

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