È una novità!

È una novità che mi metta a scrivere di un disco che ho appena comprato, ed è una novità che lo abbia comprato dopo un solo ascolto.

Una novità, sì, ma non una sorpresa.

Che avrei finito per prenderlo lo sapevano tutti: io, già a metà gennaio, quando ho visto la copertina del Buscadero che lo annunciava; Mario, il proprietario del negozio di dischi, che il sabato precedente all’uscita mi informava del suo arrivo; lo stesso Will Oldham, mentre lo registrava al Cowboy Arms Hotel and Recording Spa di Nashville (cioè, lo avrebbe fatto, se avesse saputo chi sono).

The Purple Bird, il nuovo lavoro di Bonnie “Prince” Billy (il più recente nome d’arte di quel Will Oldham che, inspiegabilmente, ignora la mia esistenza), è uscito venerdì scorso; il giorno dopo era già a casa mia.

Perché? Perché amo quest’uomo, ovviamente, ma anche perché, già in quel primo ascolto e poi nei successivi, questo disco mi ha consolata, emozionata, divertita e soprattutto rasserenata: benzodiazepine a 33 giri. O quasi.

Avete presente I See a Darkness? Beh, non c’entra nulla!

In qualche modo, però, la storia di quest’album comincia da lì. Infatti, al centro del progetto c’è un amico: il produttore David “Ferg” Ferguson. I due si sono incontrati quando Will era andato ad assistere alla registrazione di Johnny Cash della cover di I See a Darkness per American III: Solitary Man, dove Ferguson figurava come ingegnere del suono.

Un produttore country, quindi, per un album registrato a Nashville con la partecipazione di numerosi musicisti e cantautori della scena locale, che hanno collaborato alla scrittura di sette brani su dodici.

Né il country né le collaborazioni, in realtà, sono inusuali nella discografia di Oldham, ma qui c’è di più. Come se Will avesse voluto “vivere” il luogo e il processo creativo di quella tradizione che ha interiorizzato ma di cui non fa parte. Una questione di metodo più che di risultato: fare la propria musica, ma farla come si usa a Nashville.

E a condurlo “al centro del mistero di tutti quei dischi country che ho divorato nel corso degli anni” (cit.) c’è Ferg, il suo Virgilio - o Beatrice, a seconda di quanto vi piaccia il country. Lui lo accompagna dagli artisti, con lui prendono vita le sessioni di co-scrittura dei brani (David Ferguson compare, infatti, oltre che come produttore, anche come coautore di tutti i sette brani collaborativi), lui gli presenta i musicisti. Spesso è a casa sua che le canzoni nascono, un luogo familiare dove appeso su una parete c’è, chissà perché, un disegno fatto da David in seconda elementare e che ispirerà la copertina e il titolo dell’album.

Il modo di co-comporre adottato in questo lavoro è inedito per Will e ha il sapore genuino e concreto del Tennessee. Due chiacchiere intorno a un tavolo, le chitarre, un’idea, poi si comincia a lavorare, un paio d’ore ed ecco: la canzone è lì.

Mi piace immaginare questi incontri, mi affascina la dimensione collaborativa, persone diverse per età, vissuto, idee, convinzioni politiche, si ritrovano insieme e creano qualcosa, superando le individualità e le differenze, arrivando, nella musica, a una sintesi.

Will in un’intervista ha affermato che comporre e cantare insieme a un veterano del country come John Anderson sia stato per lui qualcosa di simile a un premio, una delle maggiori soddisfazioni a cui un artista indipendente come lui possa aspirare. E anche se i due non sembrano avere molto in comune, i due brani che li vedono coautori (The Water’s Fine e Downstream) funzionano a meraviglia. Ma di canzoni in grado di catturarti questo disco è pieno: London May; Boise, Idaho; Sometimes It’s Hard to Breathe, solo per nominarne alcune.

Novità, dicevo, ma non certo innovazione.

Qui c’è tutta la tradizione country e probabilmente anche questo lo rende così rassicurante per me.

Però, forse, qualche piccola falla nel mio ragionamento c'è. Ad esempio, Guns Are For Cowards, un valzer di denuncia (!?) contro la diffusione delle armi, nonostante la musica da fiera di paese, di rassicurante non ha nulla (“Se potessi farlo senza che nessuno dicesse che hai commesso un crimine/Fai una lista di persone che potresti distruggere per sempre/A chi spareresti in faccia? A chi spareresti in testa?”), se non, dal mio personale punto di vista, il fatto di non essere americana. Oppure non è chiaro perché mai una napoletana come me dovrebbe trovare conforto in una tradizione distante da lei come il country…Saranno i mandolini?

Contraddizioni a parte, credo che a plasmare la mia percezione di questo lavoro contribuisca in modo determinante il finale (in fondo, il sapore che ti resta in bocca, dopo una cena, è sempre quello del dessert), costituito da una splendida cover di Is My Living in Vain? di Elbernita "Twinkie" Clark e da Our Home scritta e suonata con il mandolinista Tim O'Brien (vedete che tutto torna?!)

Nel penultimo brano, alla domanda se ogni cosa sia priva di senso, la risposta è “It's not all in vain /'Cause up the road is eternal gain”, che sarebbe traducibile con “Non è tutto vano/Perché più avanti sulla strada c'è un guadagno eterno”. Essendo una canzone gospel, con molta probabilità il verso allude all’Aldilà, ma qui, seguita dalla corale Our Home, con quei versi di consolante senso della vita “alla buona” (“Guarda negli occhi le persone che incontri/[..]/Quando arriveranno tempi duri per buttarti giù/Sei tanto forte quanto le persone che conosci”), mi pare possa essere interpretato, forzando un po' la traduzione, in modo differente: che il significato ultimo, quello per cui non è tutto vano, sia proprio la strada e le persone con le quali la si percorre.

Lo ammetto, a casse spente, forse sorriderei cinicamente di una visione così semplicisticamente ottimista, ma la magia è tutta qui: mentre la musica suona, finisco per crederci sul serio. E poco importa se l’illusione dura solo 43 minuti e 35 secondi, tanto posso rimetterlo ancora e ancora e ancora.

Eccomi intrappolata in un ascolto ossessivo.

E no, questa non è una novità!

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