“Avrei apprezzato di più se fosse durato un’ora in meno”.
No, semmai è l’esatto contrario. “The Brutalist” di Brady Corbet funziona anche per le sue dimensioni ciclopiche, per quella durata di tre ore e 35 minuti (con intervallo di 15) che potrebbe intimorire e dissuadere molti. Una contro-storia del sogno americano che riesce a tenere insieme aspetti cruciali della società a stelle e strisce in una vicenda compatta e anche minimalista se vogliamo.
L’immigrazione, l’accoglienza o il rifiuto dello straniero, il capitale e le sue sclerotizzazioni, la costruzione di una civiltà attraverso i suoi luoghi, gli edifici come simboli eterni, ma anche l’ossessione della creazione, la sofferenza e la dedizione totale richieste dall’arte, gli inganni reciproci tra i mecenati e gli architetti/artisti. L’ego sfrenato di un uomo che fa a pugni con la vita per restituire infine un’opera immortale che lo redima da tutte le colpe, che cancelli tutte le sofferenze.
L’ebreo di Budapest
Quella di László Tóth è una storia di deportazione e diaspora, di fuga e palingenesi (solo immaginata) in un mondo nuovo che in un primo momento può sembrare migliore, luminoso. L’ebreo viene trattato come tutti gli altri immigrati, i suoi meriti nel campo dell’architettura sono solo accennati qua e là, nel nuovo mondo lui non è nessuno. Finisce a spalare carbone, vive in un dormitorio. Ma un capitalista si accorge di lui, Harrison Lee Van Buren, e da quel momento tutte le porte sembrano aprirsi. Ma è solo un’illusione. Lui resta un cane, un mendicante che “parla come un lustrascarpe” e ben presto si ribellerà contro “la mano che lo ha nutrito”.
I capricci del capitalismo
Monumentale (in termini di sceneggiatura) la figura di Van Buren. Un arcigno Guy Pearce incarna le contraddizioni del magnate che ha tutto ma è povero di spirito, rincorre quell’unico affetto autentico della sua vita (la madre) e pensa di poter comprare con i soldi l’immortalità. Apprezza il genio dell’artista ma in qualche modo lo odia, lo invidia. Dopo averlo sedotto e messo sotto contratto, lo sottopone alle fluttuazioni imprevedibili del suo umore e degli affari, lo abbandona e lo riprende, ne stupra l’anima e il corpo.
Roba d’altri tempi
Un edificio mastodontico (questo il progetto) per un film che ne imita il gigantismo. Tre ore e 35, perché il pubblico quel palazzo lo deve agognare, deve diventare un po’ anche la sua ossessione. In sala dobbiamo sentire tutto il peso e la fatica della creazione, non ci sono concesse scorciatoie. Corbet ci chiede di soffrire insieme a lui e a László Tóth nel processo quasi trans-umano che è necessario per consegnare ai posteri un’opera immortale. Che sia il palazzo Van Buren o il film stesso. Un’ossessione delle idee che si scontrano con le durezze della vita concreta, quel bisogno di conciliare idealità e contingenza che porta l’architetto più volte sull’orlo dell’abisso.
Un film che osa un gigantismo simile per una sceneggiatura così concettuale e non accomodante è qualcosa di ormai quasi unico nel panorama delle major. Roba da Herzog.
La consunzione dell’artista
Nel volto di un immenso Adrien Brody si raggrumano tutte le sofferenze del genere umano, nel senso più alto del termine. La fame, la libido, la mancanza della moglie, l’indigenza, il dolore fisico, la dipendenza dall’eroina, la subalternità al potere, la necessità demiurgica di creare ciò che può dargli l’immortalità. Ma anche la necessità di sopportare schiere di vermi e piccoli uomini (il figlio di Van Buren e tanti altri) che esercitano su di lui una parte del potere capitalistico. Un artista che diventa quasi mostro perché la creazione è qualcosa di oltre-umano.
Il potere ingannato
Una sceneggiatura che funziona benissimo su diversi piani di lettura, senza risultare mai innaturale. Ogni passaggio, ogni figura, ogni dialogo porta con sé un doppio, una incarnazione simbolica che abbraccia tutto il senso e la storia della nazione. Una contro-storia, perché alla fine sembra emergere una grandezza che non è veramente voluta e compresa da chi sta ai vertici, ma è figlia di un’ispirazione che arriva dal basso, da fuori, e che i fautori (finanziatori) di quelle opere non avevano nemmeno capito del tutto. La grandezza degli Stati Uniti non figlia tanto di una volontà precisa del potere costituito, ma è prole “illegittima” di quei moltissimi immigrati che hanno dovuto apparentemente obbedire al potere, usandolo invero per realizzare la loro visione. Una rivendicazione fortissima.
La persistenza della visione
Tutto si compone perfettamente nello stile registico di Corbet, che ci concede inquadrature lunghe, lente, perché dobbiamo cogliere le geometrie dell’anima come quelle dell’architettura. Ma come per contrappasso, dopo tutta la pazienza richiesta dalla creazione, l’opera finale ci è quasi sottratta, mai enfaticamente mostrata perché forse, alla fine, tutto quel travaglio voleva solo restituire all’uomo il calore di un abbraccio con la moglie per anni lontana.
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