Dio sono io. Anzi, diciamo meglio: gli DEI sono LORO. Certo che lo sono, eccome se lo sono, cazzo se lo sono. Forse non proprio dei, ma allora come volete chiamarli? I maestri? I profeti? I messia? Sono pochi gli amanti del post-hardcore che non amano i Breach (chi ne conosce uno alzi la mano). Eppure per qualche misterioso motivo non la ottennero mai quella fama che meritavano, mai del tutto, erano degli estranei, dei ribelli. Relegati ad essere per sempre un gruppo di “culto”, legati alle loro produzioni stile vecchio scantinato ammuffito, amato da chi è in grado di amarlo. Perché così fa decisamente molto più figo, no? Avere un gruppo che rimane lì, per pochi intimi, già già, sono d’ accordo. Però poi ci ripenso e mi viene una nostalgia che mi fa lacrimare il cuore al pensiero delle ingiustizie che ci sono nel mondo della musica, al pensiero che un gruppo del genere non sia conosciuto da tutti quelli che possono apprezzarlo, e soprattutto al pensiero che ora non potrà più dire nulla: sciolti. Dal momento stesso in cui decisero di sciogliersi, i Breach provocarono un vuoto che non sarà più colmabile nel mondo del nuovo hardcore, tanti hanno appreso da loro, tanti gruppi che oggi ci sembrano magnifici, certo, ma che per quanto si sforzino non riescono ad emulare la grandezza dei maestri. E proprio questo ci deve far riflettere su che realtà musicale fossero stati, sull’importanza che davvero ebbero i Breach, i “fratellini minori” dei grandissimi Refused.
Questa recensione, se volete, potete considerarla come un omaggio alla loro memoria. L’omaggio di un fan che li ha scoperti troppo tardi e che ora non sa far altro che piangersi addosso per questa mancanza. Ma perché ho scelto un album come “It’s Me God” se volevo celebrarli a quel modo? Non credete che il recensore qui presente non abbia amato "Venom", che non sia passato per “Outlines” e non si sia maciullato le orecchie con “Kollapse”. Perché ho scelto un album come questo? Fondamentalmente per due ragioni (a parte una terza: lo ADORO, letteralmente): non ha avuto una particolare fortuna. Spesso mi sento in obbligo di recensire album che meriterebbero fiumi di inchiostro e che invece hanno avuto ben poche riga da parte degli ascoltatori italiani, o almeno io ne ho trovate ben poche; da qui il mio dovere “morale” di recensirlo. La seconda ragione è di carattere tecnico/ideologico: “It’s Me God” è, senza dubbio alcuno (almeno per me), l’album più rappresentativo dei Breach. Il titolo mette subito le carte in tavola: Dio sono io; adesso vi spieghiamo NOI come si fa. Ed essi lo fanno, ci spiegano davvero come deve suonare un disco post-hardcore nel modo più puro e coerente possibile, e visto che ci stiamo, all’ importanza tecnica e storica che può avere un album del genere (ne ha influenzati di gruppi), essi pensano bene di affiancargli una validità anche artistica. Cosa?? Ma come mi sto esprimendo? Validità “anche” artistica? Ok mi esprimo meglio e senza mezzi termini (i Breach non ne hanno bisogno): “It’s Me God” è un autentico C-A-P-O-L-A-V-O-R-O. Ma proprio autentico autentico. In che senso? Nel senso che ti basta ascoltare i primi attimi di “Valid” per capirlo. Magari hai pensato "ma guarda, i Breach, bah ascoltiamoceli du’ minuti và" e poi sei rimasto li non due minuti, ma due ORE, ad ascoltare sempre la stessa canzone, ripremendo continuamente il tasto reward dello stereo fino all’ esaurimento, prima di andare avanti nell’ascolto, totalmente catturato dalle distorsioni sinusoidali, dalle tentazioni noise, dalle contorsioni apocalittiche, dall’attesa che cresce e si spegne in spasmodica perdita allucinante di ogni punto di riferimento: solo tu e un muro di suoni in cui ti sei perso e non puoi più tornare indietro. E la riascolti decine e decine di volte, cercando un qualcosa, un come, un perché, cercando di capire dove sia scaturita quella scintilla geniale che dona a una canzone come “Valid” tutta quella carica eversiva che le esce violenta e ti travolge, travolge tutti i tuoi sentimenti come un tir da 20 tonnellate. Ma poi ci rinunci, e l’ accetti così com’ è. Non puoi capirla; i Breach non sono fatti per essere capiti, sono fatti per essere amati (si, proprio come le donne). Ma tanto basta. Basta se la ricompensa me la darà “Valid” : ad ogni suo ascolto mi smarrisco, mi perdo, provo una quantità di emozioni che non possono essere stese su un foglio di carta, non mi interessa sapere “come e perché” le provo, ho provato a capirlo ma non ci sono riuscito, e non mi importa.
E lo stesso vale per una canzone come “Bloodlines” , dalle distorsioni sature e grasse come un chilo di maionese andata a male, dal basso cinico e calcolatore. E poi la ricerca angosciosa che cresce e si perde nel nulla di “God Forbid Me”, e le architetture sfalsate e schizofreniche di “Deadheads”, o la violenza fredda e carnosa, tutta intrisa di spirito noise, di “Painted Face” e così via. E’ inutile descrivere un lavoro simile: dovete provarlo. Sarà il vostro animo a descriverlo nella maniera migliore, il mio lo ha fatto per me e ve ne ho dato uno scorcio, il vostro lo farà per voi. Non vi consiglio di lasciare un’opera del genere inascoltata; le vostre orecchie potrebbero non perdonarvelo. Potrebbero ribellarsi, scappare e non tornare mai più. O beh, ma io vi avevo avvertiti. Io ci tengo, alle mie orecchie. Non è vero, Dio?
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