Sono barricato in casa da un paio di giorni. Qui da me piove da ormai una settimana; le disastrose condizioni meteo, con tante strade di montagne interrotte a causa di frane e valanghe, mi costringono a rinunciare alle mie consuete camminate "perso" nella maestosità dei luoghi dove vivo. Troppo pericoloso avventurarsi tra la neve resa pesantissima dalla molta acqua caduta. Ho così tempo per cercare di rilassarmi, riuscendoci, con la mia musica; ed ho rispolverato buona parte della discografia dei Buffalo Tom, concentrando le mie attenzioni sul loro lavoro che prediligo.
Trattasi dell'album Let me Come Over, il terzo della carriera della band pubblicato nel 1992. Personalmente uno dei tantissimi capolavori che porto dentro di me di quelle clamorose ed indimenticabili annate.
Quando si formano sul finire degli anni ottanta Boston, la loro città, sembrava essere la capitale della musica americana "alternativa": Pixies, Dinosaur Jr., Throwing Muses avevano già compiuto importanti passi discografici. Tre giovani compagni di università si incontrano e mettono in cantiere i Buffalo Tom, ispirandosi da subito ai già noti concittadini ed anche agli Husker Du meno irruenti. Le prime grezze ed amatoriali registrazioni fanno il giro di Boston e finiscono nelle fidate mani di J. Mascis che da subito si innamora del rumoroso terzetto e li affianca in fase di produzione nell'ancora acerbo omonimo esordio ed anche nel secondo album Birdbrain che già rappresenta un deciso passo in avanti.
Tra infiniti tour promozionali si arriva così al Marzo del 1992 e alla pubblicazione di Let me Come Over. Lavoro perfetto, curato nei minimi particolari, con una produzione ad hoc. Bill Janovitz è il faro, il punto di riferimento della band; guida i suoi compagni all'apice della forma, introducendo in molti brani quella componente Folk che diventerà un pregiatissimo marchio di fabbrica per i succesivi dischi.
Il meritato successo resterà comunque un lontano miraggio, un traguardo per i nostri mai raggiunto; ed è un peccato perchè i Buffalo Tom hanno avuto l'enorme merito di aver scritto alcune delle canzoni più belle degli anni novanta. Di certo la terribile immagine posta in copertina non è stata d'aiuto della band. Questo è a pare mio l'unico pesante difetto della raccolta di canzoni presenti.
Raccolta che si apre in sontuoso modo con la rabbiosa "Staples": chitarre belle cariche, rumorose, al limite del Noise dalla tanta distorsione messa in campo. Un rimando ai precedenti lavori, ai mai dimenticati esordi. Subito dopo arriva il brano forse migliore mai inciso dalla band; anzi per quanto mi riguarda tolgo il termine forse perchè "Taillights Fade" è il mio indiscusso vertice. Canzone di imbarazzante semplicità; una classica ballata elettrica che ricorda molto da vicino Neil Young. E' la sofferta voce di Bill a divenire protagonista, ad urlare il titolo più volte sul finire...una meraviglia non aggiungo altro.
L'album è un continuo alternarsi di momenti più frenetici che guardano al passato, come avviene nelle dinamiche, coinvolgenti, trascinanti "Mountains of Your Head" e "Velvet Roof", che cedono il passo a pause riflessive, a trame acustico-folkeggianti che sono ben in evidenza in "Mineral" (altro episodio dfa consegnare all'immortalità) e nella lunga, ben oltre i cinque minuti, "Larry". Il tutto termina, viene chiuso dall'ennesimo pezzo da novanta: "Crutch" che si apre in modo mesto, delicato, pacato e prosegue tra improvvise impennate elettriche e trame più leggere, morbide, avvolgenti. Da dieci e lode!!!
Peccato per il pochissimo riscontro, le mediocri vendite...Qui in Italia ce li siamo ascoltati in quattro o poco più, ancor meno su Debaser...un mio ascolto recente lo dimostra purtroppo.
Ad Maiora.
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