Facevo le elementari e facevo merenda, ricordo abbastanza bene. In qualche rotazione videomusicale alla tivù passò Pasta al burro. C'era un tizio spilungone, magrissimo e cappellone che rappava strano e con voce filtrata su yin e yang del classico primo piatto. Ma soprattutto si contorceva, buttava per terra, casini di cavi, chitarre che girano, capi chini, conati, gente esaltata, probabili droghe pesanti, sicure droghe leggere. Era un video live con l'audio del pezzo in studio e scritte sovraimpresse. Pensai immediatamente che quel Bugo fosse un bello e che di roba italiana così non ne avevo mai vista né sentita. Non ricordo poi quanto tempo dopo, scoperta la storia del p2p, riuscivo a procurarmi tutta la sua roba, che mi pare si fermasse allora a Golia e Melchiorre - belli - o a Sguardo contemporaneo, molto bello. Ma Bugo, levi l'imbarazzante e a tratti un po' cattolico ultimo disco Nuovi rimedi per la miopia, negli anni è stato una conferma cangiante di quella prima impressione freak allucinante che mi aveva fatto, a me imberbe e merendino. Però quel giorno che il Mulo fece il suo dovere, Pane, pene, pan, il primo disco di Bugo, proprio non riuscii ad afferrarlo. Non capivo né cosa né perché, né come avesse fatto a uscirne. E pensare che il primo disco è sempre il migliore, secondo una mia incrollabile convinzione dei tempi. Ascoltato comunque dall'inizio alla fine, ma credo di aver fatto qualcosa nel frattempo, messo nella sua brava cartella e mai mai più ripreso, pure perso un paio di volte causa rotture computer e hard disk esterni, ritrovato poi e sempre lasciato lì.
Tra quei tot anni fa e oggi, sono passati - e spesso si sono anche fermati e ancora lì stanno - Jandek, i Guided By Voices, R. Stevie Moore, Slanted and Enchanted, i Sic Alps, la shitgaze dei Psychedelic Horseshit, Von Hemmling, Battisti elettronico, Julian Koster e le sue varie cose, Tony Molina, The Punch Line, la no-wave e i Royal Trux, mille pose e roba francamente innecessaria, casini di cavi vissuti dal vivo e vomitate sul e sotto il palco, pezzi registrati al cellulare e mandati dall'impianto della saletta «oh questa l'ho fatta ieri mattina a casa, vedete se vi piace» e WRAAAAAAM la distorsione innaturale di quel nokia che trasforma tutte le chitarre acustiche nei Jesus and Mary Chain di Taste The Floor, «vabbè l'intenzione si capisce, no?», «no.»; nastri smagnetizzati, l'apparecchio per sentire la musica in due con un paio di cuffie a testa che è servito a farti sentire bene i Pixies quando avevamo diciassette anni in treno e poi invece è servito a me, finito solo, quando rompevo gli auricolari in due giorni e allora riuscivo a rimediare piazzandone due paia tutte per me e porcaputtana perché si spacca sempre la sinistra e degli Zombies ho solo le versioni stereo!, la raccolta dei Tall Dwarfs, la cassetta Relics di Jeans Wilder, Smog, i Soerba, Metal Machine Music per prendere sonno, l'estate che sono rimasto mezzo sordo per un paio di mesi e il giorno che ho ripreso all'improvviso a sentire normalmente e volevo baciare e abbracciare tutt*, registrare e poi mandare il registrato dal mio stereo arrangiatissimo e suonarci sopra riregistrando tutto e ripetere una ventina di volte fino a quando non usciva il casino vero e la prima cosa che avevo registrato non esisteva proprio più, le demo casalinghe di Rivers Cuomo, il primo dei Meat Puppets, le prime registrazioni di Crywank, Metal Circus.
Se oggi riascolto Pane, pene, pan e mi piace così tanto, qualche motivo deve pur esserci. Se Gioconda con le sue tastierine e il kazoo è talmente infantile, ingenua, toccante e un po' autistica da ricordarmi quando per la prima volta sentivo Daniel Johnston. Se scrivere un western, sragionarci sopra e intitolarlo Fa caldo, fanculo mi sembra improvvisamente una grande idea. Se il finale di Mio morbido letto fa molto più prime demo dei Pavement che i Times New Viking. Se Cibernetico è così bella che neanche so che dire, con gli spunti geniali e storti di chitarra che ha, con quegli effetti spaziali che mi ricordano la sega ad arco dei Music Tapes e quella linea vocale dimessa e sfigata che ha fatto la fortuna di piccole gemme come Solitario e Oggi come sto, sul successivo straordinario La prima gratta. Se ora Brutto scherzo più o meno mi quadra: inizia come free jazz dei poveri, esibisce i primi tentavi in flow da Beck di Trecate (NO), parte di riff pentatonico (Black Keys merda) e poi finisce inspiegabilmente con una chitarra completamente fuori contesto. Perfetto.
Ma Bugo era pure un po' un inconsapevole Roland Barthes e c'è qui un discorso amoroso in frammenti cronologicamente sparsi, tra «Anche se ho il maldischiena, ne vale la pena», che tutti i funestati da sfighe, ernie e materassi vecchi conoscono come riflessione pomeridiana per una serata promettente amore. Tra il poco ermetico «hai dovuto regalarmi un grande corno» del tradito e ferito, che Bugo canta in Assorpresa con una voce stranamente sottile, come mai dopo allora. Con una chitarra talmente brutta che si sente il plettro morbido sulle corde. Tra il falsetto disilluso apatico «Hey baby, non ti voglio più, al tuo posto ho preso una tivù» e Universo che sorprende col piano e sintetizza tutto in un mood cupo e decisamente grunge, chiudendo una romanticheria col «bottana industriale» di Giannini a Melato.
C'è anche Samurai che sembra una demo infuriata e stortissima delle prime demo dei Verdena, ma magari è solo il "samurai" che mi fa associare. Comunque prima la scena italiana stava in fissa con cose tipo samurai e fantascienza da merendine, chissà perché. C'è A chi medita sulla tazza, un folk di gusto celtico senza alcun senso. E Non dovrei scrivere il titolo che presentava già allora, già compiuta, la poetica demente del miglior Bugo in trance agonistica grunge fuori tempo massimo; prima strofa: «non dovrei portarmi i giornaletti in bagno, non dovrei grattarmi ché poi esce il sangue, non dovrei sbagliare ancora il terzo giro, non dovrei pelar patate per il prete». C'è già Vorrei avere un dio, uno dei classici del primo Bugo, ripresa poi in Sentimento westernato: «questa insicurezza nei rapporti la sistemerò quando avrò i capelli corti. Come un cane senza il suo guinzaglio, vorrei avere un dio anch'io».
Questa è la cassettina che il Bugatti portava in giro nel Novantasei, tra alfanumerici nonsense che sono schegge di wita, filastrocche e campanacci, idee spesso anche buone prese e lasciate lì senza ulteriori sviluppi, come Pollard insegna. Che poi è il senso di una demo. Appena sei anni dopo Bugo sarebbe finito sotto contratto con la Universal, passando Dal lofai al cisei. Segno che, a essere se stessi e autentici fino in fondo, a volte vincono pure i brutti, gli scarsi, i tossici, gli storti e gli strani.
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