Dopo l'inaspettato successo di "Mainstream" Edoardo D'Erme decide di isolarsi dalle scene per un breve periodo: poche apparizioni sui media, qualche intervista, pochi live, spesso solitari chitarra e voce, come accadeva prima che sorprendentemente tutti quanti puntassero i riflettori su di lui. Pausa di riflessione necessaria per ricaricare le batterie e decidere come proseguire il percorso intrapreso. Nasce da un contesto di anonimato ormai dissolto l'album che nelle intenzioni dovrebbe rappresentare la maturità artistica, il disco manifesto da ricordare negli anni a venire, un evergreen per l'appunto, in netto contrasto rispetto al "Mainstream" intenzionalmente ruffiano nei confronti del grande pubbblico. Purtroppo così non avviene.

Un merito bisogna comunque darlo al cantautore che veniva spesso criticato per l'imperizia tecnica elevata a gene estetico: gli arrangiamenti sono nettamente più curati. Un "amarcord" del pop-rock anni 60 avvolge tutto il disco, non disdegnando a tratti piccole divagazioni psichedeliche. Ma sotto una superficie quasi manieristica si nasconde ben poco: in questo caso è proprio la carne sul fuoco a mancare, quella scrittura divenuta cifra stilistica dell'artista, nella quale piccole frasi quasi messe lì per caso riuscivano ad elevarsi ad inno generazionale e a rappresentare con pochi immagini, spesso povere e dimesse, tutta l'incertezza e la precarietà del sentire comune.

Ci si prova qua e là con buoni risultati in "Briciole" o in "Hübner". La prima, quasi un'out-take de "Il cielo in una stanza" rivisitata in salsa lo-fi, presenta uno dei pochi testi intimi e veramente convincenti del lotto ("ma le tue parole soffiano le briciole/ verso un arcipelago, diventano le isole"). La seconda, che pare sia un residuato del disco precedente, risulta apprezzabile per l'arrangiamento esile, rarefatto, nebuloso che dà a delle minimali e semplici frasi un mood piuttosto interessante. E la prima metà dell'album riesce ad essere coerente, purtroppo con esiti meno felici, a questi due brani, eccettuando la troppo cremoniniana "Kiwi" e l'intermezzo elettronico "Dateo", che nulla aggiunge o toglie al disco.

I problemi sono invece palesi e non ignorabili nelle ultime tre tracce, dove il cantautore abbandona il suo piglio intimista per indossare una maschera autoironica e sbarazzina con risultati poco credibili, a tratti imbarazzanti; se la rockeggiante "Nuda nudissima", con i suoi chitarroni saturi di flanger, può essere fatta passare per un puro divertissement, "Rai" e "Orgasmo" non convincono per la scrittura spesso infantile ed acerba, scrittura che avrebbe portato un orecchio più critico a scartarle senza esitazione. L'album della maturità si rivela quindi un disco di transizione con poche idee, spesso sfocate, e ancora tanta strada da fare per risultare veramente convincente in ambito artistico.

Carico i commenti...  con calma