I Camel, reduci dal monumentale concept-album strumentale, "The Snow Goose", tornano subito in sala di registrazione per pubblicare un'altra opera. E' il 1976 ed il fenomeno del progressive rock si sta esaurendo. Alcuni gruppi storici hanno mollato o sono in procinto di farlo (King Crimson, Gentle Giant, Focus), altri si apprestano a cambiar rotta per approdare in "porti" più accesibili (Genesis, Yes, Jethro Tull), altri ancora decidono di continuare il proprio "percorso progressivo", e in quest'ultima categoria rientrano i Camel, oltre ai Van der Graaf Generator del mai troppo elogiato cantore Peter Hammill. Gran parte della musica sviluppatasi nella seconda metà dei 60' e nella prima metà dei 70' viene cancellata o ridimensionata, nella sfera del grande pubblico, dall'irruzione di generi come il Punk, la Disco, il Reggae.
Tuttavia, dopo neanche un anno dalla precedente fatica, il quartetto originario di Guildford, pubblica "Moonmadness". Il titolo suggerisce che la Luna è il fulcro di questa costruzione musicale, ma nonostante ciò non stiamo parlando di un concept-album vero e proprio: le canzoni sono slegate l'una dall'altra, le liriche compaiono in poche occasioni e non vanno a supportare alcuna trama narrativa, sulla quale ogni album a tema, che si rispetti, affonda le sue radici. La formazione è quella storica, che, purtroppo, comincerà a sfaldarsi proprio dopo il tour di quell'anno. Infatti il bassista Doug Feguson entra in collisione con gli altri componenti e lascia la band. Il motivo di questo improvviso addio è dovuto al fatto che la band sembra decisa a virare verso altre dimensioni musicali, i successivi "Rain Dances" e "Breathless" sono i frutti di questo cambiamento, che non suscitano interesse nel bassista storico. Infatti "Moonmadness" è, a mio avviso, l' epitafio di quei Camel entrati nell'elitè del progressive, e del quale sono stati insieme ai Genesis "Gabrieliani" gli alfieri dell'ala romantico-onirica. Ovviamente non mancheranno ottimi lavori in futuro, ma saranno sono l'eco del ruggito, il rimpianto sommesso di un' epoca, ormai, svanita.
Il prodotto è compatto, non presenta punti deboli e si incastra alla perfezione nell'impianto onirico e sognante edificato dalle melodie. "Song Within a song ", preludio al sogno lunare, infarcito di spunti melodici vagamente crimsoniani, si apre tenuamente con il flauto e le brevi liriche, cantate da D. Ferguson, per poi salire di tono grazie alle sfuriate di P. Bardens. "Chord Change" è un strumentale poderoso con una sezione ritmica in formissima che accompagna gli assoli di Latimer, stavolta di chiara ispirazione funk, spezzati dalle digressioni di Bardens all'organo Hammond. "Spirit of the Water" è un episodio di notevole intensità, nonostante la sua durata oltrepassi appena i 2 minuti. Bardens, che in questo brano canta, sforna una malinconica melodia pianistica, nella quale si inserisce il flauto. "Air Born" è un'eterea composizione, che nella sua leggerezza epica sembra quasi accarezzare la Luna. L'intro affidato al flauto traverso,è di forte impatto, e ad esso seguono prima un brevissimo assolo chitarristico di A.Latimer e poi le liriche, cantate sempre dal leader, inframezzate dalle tenue pennellate "bardensiane". "Lunar Sea" è l'ingresso nell'impervio, ma affascinante mondo lunare, una lunga e corale divagazione strumentale. Si inizia con le sonorità siderali delle tastiere di Bardens che, poi, lasciano spazio alla sei corde del leader, mai come questa volta furiosa e distorta.
In conclusione "Moonmadness" si presenta come un disco dalle sonorità luminose, coinvolgenti, sognanti, che rapiscono l'orecchio di coloro a cui sta a cuore un prog-rock genuino, emozionale che non casca in eccessivi virtuosismi. Sicuramente ci sono dischi migliori, in quanto a genio, tecnica, epicità, innovazione, in ambito progressive, ma risulta, nel complesso, un album omogeneo, sobrio. Impeccabili le parti strumentali, che sanno colpire l'immaginazione dell'ascoltatore sia per la bravura tecnica che per il tasso emozionale in esse trasfuso. Annotazione: trovo che, in quest'album, le fugaci parti liriche costituiscano un punto di forza (cosa rara per i Camel) e non una lacuna sospesa tra le parti strumentali solitamente lunghe.
Ps.: Secondo me, si rasenta il capolavoro perciò non indugio a votare quest'album con il 5. Con questa recensione concludo la mia "trilogia del Cammello", spero di non avervi tediato troppo e cercherò di farmi notare analizzando opere di altri artisti.
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