E sempre sia lodato questo camper che lieve scorazzava tra i suoni più diversi riuscendo chissà come a tenere tutto insieme.
L'amalgama, il collante era la formula: “Surrealistic absurdist folk”, una specie di frizzante energia buona, un quid che garantiva l'inatteso.
E poi, dai, quella ragione sociale!!!
Che la ragione sociale è faccenda non di poco conto: nomen omen, come si suol dire. E se dici Camper Van Beethoven è una mezza epifania.
Tipo quella volta che a Ian venne in mente Joy Division o Lou e John trovarono un libriccino il cui titolo era Velvet Underground...
Avete presente quando un nome (un suono!!!) non solo esce bene dalla bocca, ma riassume nella maniera più precisa una determinata poetica? Ecco, è il caso dei nostri Camper.
Quel nome fa venire in mente qualcosa di scombiccherato e folle. E il loro primo album “Telephone free landslide victory” è esattamente così...
Immaginate un claudicante ritmo ska a braccetto con qualche quisquilia folk. O una specie di parodia della musica etnica.
Come se la Kocani orchestra suonasse con strumenti giocattolo. O un jukebox burlone sparasse random tutta una serie di cartoline musicali spedite da un capriccioso mondo di fantasia. Cose tipo frattaglie tex mex, frammenti di est europa, ricordi levantini, balalaike, syrtaki....
Una follia si, ma volutamente di poco conto e in assoluta leggerezza. Il piccolo sogno di un gruppo rock che si fa orchestrina scintillante.
Con l'aggiunta di uno zero virgola uno di spirito zappiano, tipo il Frank che, alzatosi da letto col piede giusto, fischietta preparando il caffè.
E fin qui si tratta di brani strumentali...
Poi ci sono le canzoni: roba svelta e spigliata tra folk, punk psichedelia e ancora ska, il tutto all'insegna della magrezza dei suoni. Del resto all'epoca si era tutti a dieta.
Rimane da dire di titoli assai buffi: il povero cane lassie fuggito sulla luna, straniti skineads finiti chissà come al bowling, ricordi di Mao a proposito dei suoi giorni nel sud della Cina.
Poi con questo “II & III” le cose cambiano. Che, se immutata è la graditissima peculiarità di andar di palo in frasca (e di frasca in palo), il suono diviene un'altra cosa e, da esile e magro che era, ingrassa di parecchio.
Più carne insomma, più sangue, più sudore. L'anima roots si affida a uno spiritello indiavolato, i numeri da orchestrina perdono quell'aria da boutade e tutto raddoppia di energia. Niente più dieta, ah no, che qui si scoppia di salute.
Non solo, al già vasto armamentario si aggiungono un buffissimo garage ridanciano, luminose schegge wave, tuffi nella psichedelia anni sessanta, esercizi di country sbilenco. E chi più ne ha più ne metta.
Certo, l'impressione potrebbe essere quella di un campionario un po' confuso, di un bric e brac incendiario, ma dispersivo. I nostri però avevano un paio di grandi pregi: riuscivano, pur stroppiando sempre, a non stroppiare mai e, soprattutto, non si prendevano troppo sul serio. Del resto come può prendersi sul serio un'orchestrina?
Trallallà...
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