Quarta uscita per i milanesi Canaan, una delle più interessanti formazioni promosse recentemente dallo stato di semisconosciuti a quello di noti nella realtà underground, in terra italica e non. Inspiegabilmente, data la bravura di Mauro Berchi e soci, ma verrebbe da dire anche ovviamente.
Con cadenza puntuale, il collettivo lombardo continua a pubblicare i propri lavori, nei quali non si può fare a meno di notare un progressivo miglioramento, suggerendo un’interessante maturazione artistica. I temi, le atmosfere, la filosofia è sempre quella del debut Blue Fire (datato ormai 1996), ma il livello compositivo e l’intelligenza artistica sono migliorati a vista d’occhio.
Questo A Calling to Weakness racchiude in diciassette brani molteplici sfumature, racchiuse in un’unica sostanza che imperversa senza sosta lungo i 71 minuti d’ascolto: il dolore. A partire dall’epitaffio scritto dallo stesso Mauro all’interno del digipak, per poi proseguire attraverso la ormai classica struttura dicotomica “canzone - non canzone”, ovverosia l’alternanza tra un brano che segue le regole della forma canzone ed un altro che invece le ignora (questa sequenza è diventata una cifra stilistica del gruppo).
L’ascoltatore è accolto in questa “chiamata alla debolezza” da un intro onirica, in cui lo scroscio di samples di pioggia battente su d’un desolato paesaggio metropolitano va a fondersi con il caldo ma vacuo suono di un particolare strumento a fiato africano, mentre la placida voce del guest Khalid cantilena un intraducibile senso di rassegnazione. Questo sentimento di costernata accettazione delle cose è uno dei tratti fondamentali del disco e della musica dei Canaan in generale. Ma non è autocommiserazione né un piangersi addosso, bensì lucida consapevolezza. La lucidità è la seconda nota importante da ricordare: essa si manifesta lungo tutto l’album, si esprime in una ricerca peculiare di suoni e di arrangiamenti, in cui nulla è lasciato al caso. Ne sono manifesto la struttura dei brani “classici”, ovvero quelli che si lasciano inquadrare (lascio intendere una passività in tutto ciò perché conoscendo gli artisti, per nulla si interessano di seguire un determinato genere) in una sorta di dark wave del 2000: ritmiche scheletriche, batteria regolare e cadenzata, chitarre sia distorte sia pulite, trattate con feedback e riverberi. Ma vi sono altri due tratti caratteristici: la massiccia presenza di synth plumbei, che gravano sulle orecchie dell’ascoltatore (come in "Essere nulla") e che difficilmente riescono nel tentativo di innalzarsi oltre al pesante coperchio della quotidianità (ne sono la prova l’apatia di brani come "Grey" e "The Forever passion", di pari passo con il controllato fatalismo di "Prayer for nothing" e "Mercury").
Il secondo elemento caratteristico, ugualmente importante, è la voce di Mauro, la cui tonalità bassa ricama adattissime linee vocali, dal rassegnato monocorde allo scandito declamare, passando per il distorto e il filtrato. Alla calda voce del guest Gianni Pedretti (vocalist e mastermind del progetto tutto italiano Colloquio) è invece affidato il compito di esplicare il tema del dolore per separazione, da persone care e da affetti: la sua interpretazione delle amare parole scritte da Mauro per "Un ultimo patetico addio" è magistrale, così come quelle composte di suo pugno in "Essere Nulla". Infine, chiudendo la parte dei brani che seguono le strutture della forma canzone, bisogna rilevare l’essenziale parte che recita il basso di Nico Faglia in brani come "Red Chrome overdose" e "Everything you say", in cui il pulsare caldo e pacato mette a nudo la solitudine e il ricordo di una mano confortante nel momento del bisogno.
Ai brani dark ambient, che non seguono la struttura classica della canzone, è affidato il compito di esplorare i territori più oscuri e reconditi della psicologia umana; la misteriosità e l’inaccessibilità di essi viene resa attraverso fitte trame di plumbei synth arricchiti da samples rumoristi o da lontani echi di voci vaghe ed indistinte (è il caso di "Scars"), da inquietanti cori ecclesiastici in Submission, oppure da surreali e spettrali campane in "The Ghosts of my betrayal", fino a lambire i territori della drone music nella nebbiosa "Falling Again".
Il percorso attraverso i meandri del dolore volge al termine con due spiragli, il che non costituisce certo un “happy ending”, bensì una conferma della “chiamata alla debolezza”. "Frequency Omega", affidata al vocalist dei The Frozen Autumn Diego Merletto, è la deposizione delle ultime volontà del gruppo per quanto riguarda questo lavoro, un senso di sospensione fra il senso di vuoto che ci circonda, incerti se considerarlo una delle modalità di sopravvivenza nell’alienazione moderna (Silence all around me / is like a key to neutralize / the deadly frequencies inside). L’outro, essenziale filastrocca di chitarra, voce e synth, chiude le trasmissioni, malinconicamente come erano state aperte, ma priva di quel cielo perennemente cinereo che gravava all’inizio: chissà che nel tragitto gli autori, ma anche noi ascoltatori, non ci siamo spogliati di quei fardelli che conserviamo nel guscio della quotidianità.
Riassumendo, uno dei lavori più interessanti emersi dall’ambiente dark italiano nell’ultimo lustro. Un addolorato capolavoro evocativo, concettualmente elaborato ed artisticamente impeccabile. Ascoltate cos’hanno da dire questi cinque trentenni, che non hanno la pretesa di cambiare il mondo, ma solo di rivolgersi pacatamente e senza autoinganni a chi avrà la pazienza di soffermarsi.
Perché siamo echi in una stanza vuota,
schiavi dei nostri stessi desideri,
ed i nostri fantasmi continuano a camminarci a fianco,
con mani affilate come coltelli.
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