Sebbene non acclamato dalla critica, questo per chi vi scrive è il disco preferito tra quelli dei Canned Heat. Non che i precedenti siano meno belli e monumentali, ma a parer mio questo è il loro album dalle sonorità più decise e fantasiose. Ben intesi: ogni lavoro dei Canned Heat è sempre e comunque l'ennesima immersione in una pozza di fango bollente, vulcanico, puzzolente di zolfo e di sudore, un brodo primordiale dal quale nascono creature superpelose ed overobese destinate a vedersi esplodere il cuore. Ed è giusto dire che anche questo "Hallelujah" non può sottrarsi del tutto al destino, e ciò è evidente sin dall'opener, il boogie condotto dal piano "Same All Over".

Ciononostante questo è il loro disco più ardito, poiché estreme sono le soluzioni dal punto di vista arrangiamentale e strutturale, prima ancora o piuttosto che di songwriting. Perciò di boogie se ne trova quanto se ne vuole, ma o è rumorosissimo, impazzito e sclerato, tra cambi di ritmo e grugniti, come in "Sic'em Pigs", oppure è quello festoso ed ubriaco di "Big Fat", un inno alla vita in cui i 300 p. di peso di "The Bear" sono un'immensa dispensa d'amore per il prossimo, buona da portarsi sempre dietro, non si sa mai.

"Time Was" è praticamente un rootrock californiano dell'epoca; "Huautla" è un instrumental su base etnica tra decine di tamburi, che tra l'altro parte su di un ritmo strambo, cadenzato che pare una specie di walzer (!). Sovrannaturale l'assolo d'armonica a bocca, i cui passaggi sarebbero stati credibili solo se eseguiti da una chitarra elettrica. L'armonica dell'Orso fa tutto quel che di meglio si può trovare in "Hallelujah" (sebbene l'animale più grosso della band non si risparmia giammai anche alla voce), ed in "I'm Her Man" fa ciò che Ray Manzarek faceva coll'Hammond. Soluzioni estreme dal punto di vista arrangiamentale, si diceva.

Arriva dunque il momento d'affrontare l'argomento psichedelia, gusto cui nessuno poté sottrarsi a quei tempi. In genere, la psichedelia dei Canned Heat è solita fondersi alla grande col blues più tradizionale, ma comunque rimanendo al servizio di quest'ultimo. Per "Hallelujah", se così continua ad essere in "Change My Ways", lo stesso non può dirsi per "Do Not Enter": qui non si capisce se la psichedelica sia la scusa per suonare ancora del buon vecchio blues oppure se i ruoli si siano (finalmente?) invertiti. A sigillo, un boogie "astratto" da ancheggiare, volutamente delicato, quasi intenzionalmente superficiale, e la conclusiva "Down In The Gutter, But Free", un superblues strascicato, tirato per i capelli, da locale pieno di ubriaconi ed attempate squillo sbadiglianti: solo questa cavolo di band di stasera che ha ancora voglia, che vadano al diavolo passando dalla pozzanghera fumosa da cui sono spuntati fuori.

L'Orso ed i suoi amici finalmente escono interamente dalla gabbia del loro (superlativo) blues e, seppur rimanendo nei paraggi, riescono ad essere una band capace d'essere, d'andare, oltre il blues.

Hallelujah.

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