Nel  1968 I Canned Heat abbracciano definitivamente I giovani di tutto il mondo. Il risveglio planetario è alle porte, la gioventù non è mai stata così bella ed è tempo che persino il vecchio blues ringiovanisca per correre incontro ai giovani e danzare con essi. Dopo lo stratosferico "Boogie With Canned Heat" il blues fa un ulteriore passo in direzione della gioventù e dei suoi fiori, e si sposa alle sonorità coeve. "Living The Blues", sin da subito, ovvero da "Pony Blues", non nasconde l'accadimento: il vecchio, l'eterno blues si mescola al groove della musica del flower power, e tra arpeggi root e spazi chitarristici fenomenali, s'accredita ulteriormente alle orecchie del "movimento".

Vi sono ancora pezzi tradizionali, come il rhythm and blues di "Sandy's Blues" oppure il vecchissimo boogie di "Walking By Myself", ma si nota che il passo verso Woodstock è deciso. Il boogie rock di "One King Favor" lo testimonia apertamente. Lo dimostrano anche "My Mistake", ancora con questa impossibile intepretazione alla "On The Road Again", e la mitica "Going Up The Country", ovvero la gioia della vita campestre tra flauti spensierati, sonorità e vocalità psichedeliche e ritmi boogie belli lesti.

Ma ancora più emblematica è "Parthenogenesis", la suite progressiva (progressive blues!), una scelta assolutamente in linea coi i gusti del tempo. Nove capitoli, sette racchiusi tra due giochetti deliziosi e suggestivi di una sorta di marranzano echeggiante. Nel mezzo, un paio di accelerate boogie, rigorosamente instrumental, tra le quali "Rollin' And Tumblin'", l'opener del loro disco d'esordio; v'è spazio per un saggio di bravura percussionistica, un vecchio boogie al pianoforte e della violenza hardrock che si disarticola per divenire prog. Quando, in "Raga Kafi" l'armonica vibra e s'agita, pare che la Valle della Morte stia in Tibet, che i monaci buddhisti trovino il clima desertico ideale per i loro riti, e la sabbia californiana è perfetta per i mandala. Pare, insomma, che la roba che prendevano i Canned Heat fosse proprio una bomba.

Epperò non è ancora finita, anzi c'è un altro disco. La "Part II" di "Living The Blues" presenta i Canned Heat nel loro habitat naturale, il live ovviamente, nondimeno alle prese con il cavallo di battaglia "Refried Blues", che poi altro non sarebbe che la versione live, allungatissima, del classico "Fried Hockey Blues". Quaranta minuti e passa di boogie-rock, diviso venti e venti tra lato A e lato B; la separazione "fisica" del brano si concretizza grazie al fading dell'assolo di chitarra. Lo strumento si spegne alla fine del primo lato come il led rosso di uno stabilizzatore di corrente. Passati al side B, la chitarra risale di volume pressappoco dove era scesa, in "appearing" (l'opposto di fading è appearing, no?).

Estenuanti, inesorabili, questi minuti scorrono, ma il piede non ne vuol sapere di fermarsi, perlomeno non fino a che non comincia l'assolo di basso, peraltro molto buono e decisamente più fantasioso di quello, infinito, di chitarra elettrica, che si pappa da solo quasi la metà del lato numero due. Un brano certo messo al servizio della band e dei suoi musicisti solisti (c'è tempo anche per una gran fracassata ai tamburi) come da migliore tradizione live, e come c'era d'altronde da aspettarsi dato che la band è di quegli anni lì. Ma a differenza d'altri, i Canned Heat non propongono pezzi che, decontestualizzati, messi fuori dal '68 e dalle sue successive bolle spazio-temporali, appaiono sempre più soporiferi e privi di spessore (ogni riferimento a roba tipo "Blues For Allah" dei Grateful Dead et similia, con tutto il rispetto,  è puramente voluto), ma qui si balla, eccome se ci si dà dentro, e quando il brano finisce l'Orso urla il suo leggendario monito, prima di salutare la sua gente in delirio, entrambi, il vocalist e l'audience, come ne avessero ancora di voglia e d'energia.

"Don't  Forget To Boogie!"

Carico i commenti...  con calma