Michele Salvemini, in arte Caparezza, torna con il suo settimo (o nono?) album.
Partiamo quindi sviscerando il titolo dell’album (e seconda traccia), ovvero il numero “709”. Due vie.
La prima è che “Michele” è di sette lettere, mentre “Caparezza” di 9.
La seconda è che sono sette gli album incisi come Caparezza e due quelli come Miki Mix, suo primo nome d’arte.
Il numero “0” utilizzato per dare una matricola al prigioniero Caparezza che diventa una lettera “o” quando viene cantato “seven o nine”, è dunque Michele o Caparezza? È quindi il suo settimo o nono album? Su questa dicotomia il pugliese ci ha sempre giocato molto.
L’album missato (o mixato se aggrada maggiormente gli anglo fidelizzati) da Chris Lord-Alge (già producer per Muse, Smashing Pumpkins, Phil Collins, Green Day, Bon Jovi, Joe Cocker e tantissimi altri) è un concept album autobiografico legato alla “prigione” (da qui “Prisoner”… ma va là? Lo so, sono un acuto osservatore…) che ha colpito Caparezza nel 2015, ovvero l’acufene, non classificabile come malattia, ma sicuramente una condizione decisamente fastidiosa, ancor di più per chi il musicista lo fa di professione.
Ad accompagnarlo in questo nuovo album i compagni di lunga data Alfredo Ferrero (chitarra), Gaetano Camporeale (tastiere, sintetizzatori), Giovanni Astorino (basso) e Rino Corrieri (batteria). Nei live è sempre supportato da Diego Perrone (seconda voce, ex-Medusa e Niagara). Oltre ad un’intera orchestra di fiati ed archi, in questo album ci sono le collaborazioni con i “Mezzotono”, “Coro dei rumori bianchi” di Molfetta, Max Gazzé, John De Leo e la presenza internazionale è quella di “DMC”, proprio Darryl Matthews McDaniels degli storici Run DMC in “Forever Jung”.
Le tracce sono 16 e sarebbero tutte meritevoli di analisi, ma non lo farò, perché diventerebbe una recensione troppo lunga. Salterò qua e là come un equilibrista su un filo cercando di dare un’idea del significato dell’album a chi non l’ha acquistato o nemmeno sentito.
WARNING: piccolo consiglio per gli avventori musicali. Se decidete di provare questa opera, invito all’ascolto leggendo i testi e tenendo un dizionario e un’enciclopedia a fianco.
Partiamo dalla traccia 10, “Larsen” (L'ho conosciuto tipo nel 2015 / Visto che ancora ci convivo, brindo, quindi "cin" / Da allora nei miei timpani ne porto i sibili / Ogni giorno come fossi di ritorno da uno show degli AC/DC) in cui spiega il suo disturbo uditivo, la sua prigione, paragonandolo all’effetto Larsen, il famoso fischio che di tanto in tanto si sente quando un tecnico del suono non sa fare il suo lavoro ai concerti o quando i musicisti vogliono fare gli imbecilli o… gli avanguardisti. Svolge un percorso di spiegazione sull’acufene, di come si ci sente, che risvolti psicologici può creare, del fatto che sia sostanzialmente una condizione irreversibile e che può regredire o meno, indipendentemente da cure mediche, trattando il tutto con il solito piglio burlone. Trovo azzeccato e divertente l’interruzione della frase fino alla fine da parte delle coriste, sul “fi-”, tenendo prolungata la “i”, come un fischio su un SOL5.
In “Larsen” si classifica il problema, mentre in “Prosopagnosia” la malattia (è un deficit che impedisce al soggetto colpito di riconoscere i volti delle persone) ed é riconducibile ad una visione introspettiva (Non mi riconosco più, prosopagnosia / Sto cantando ma il mio volto non è divertito / Quasi non capisco più quale brano sia / Ogni volta mi riascolto, sono risentito). Si passano spesso, nell’arte, ma non solo, periodi in cui si fatica a riconoscersi, in cui non ci si apprezza più, la mancanza di autostima, di nuovi obiettivi, ma si arriva al livello di consapevolezza in cui è necessario rialzarsi (Si tratta ancora di me ma non è lo stesso / Di riposo non ce n’è qua non è l’ostello / Faccio un ulteriore passo non dello Stelvio / Via da questo umore basso, livello sterco). Demandate alla voce di John De Leo (ex-frontman dei “Quintorigo”, poi una lunga carriera solista, collaborazioni con “Orchestra Grande Abarasse” e recentemente con Fabrizio Puglisi) le frasi del ritornello cantato in inglese.
La necessità di autostima compare cristallina nel ritornello di “Una chiave” (No! Non è vero! / Che non sei capace, che non c'è una chiave), si completa nella traccia successiva con ciò che “Ti fa stare bene” (secondo singolo estratto dall’album), un inno a fare ciò che ci fa semplicemente divertire e stare in pace, anche se è socialmente difforme dalla massa, anche se è un ritorno alla gioventù, anche se è naïf. Ha un finale che personalmente adoro (Canto di draghi, di saldi, di fughe più che di cliché … Questa canzone è un po' troppo da radio sti cazzi finché / Ti farà stare bene). L’allitterazione e sostituzione (draghi-droghe, saldi-soldi, fughe-fighe) è “giocata” benissimo e la conclusione, pare una “paraculata” senza precedenti. Tutti possono pensarlo, anche giustamente possono farlo, ma Capa lo sa già, l’ha previsto e ti dice chiaramente se ne frega, perché lui ha bisogno di stare bene e non pensare alla negatività, quindi "sti cazzi".
Chiude il cerchio “Migliora la tua memoria con un click” cantata con Max Gazzè, che per il vero compare solo in un divertente finale che non aggiunge molto al brano. Una canzone severa che ci invita a crearci una cultura, studiare, ricordare e non limitarci ad usare un “click” per far finta di avere una cultura, ma anche a fare attività, di condividere con le persone i propri pensieri ed umori (Viaggia in macchina, monociclo ed aliante / Non nella tua stanza con il dito sull'atlante / Anime penano perché non vanno mai da nessuna parte / E poi quando potrebbero, nessuna parte / A sera spegni il telefonino / È un apparecchio, infatti ti sta togliendo il sorriso), un piccolo manifesto di dove sta virando una cospicua parte della società odierna.
Menzione per “Confusianesimo” che ha una prima strofa stratosferica in termini di riferimenti e metrica, “Sogno di Potere” (ho messo il CD in pausa e riso per almeno un’ora quando una vocina ha detto frega una sega) e indiscutibilmente “Prisoner 709” traccia potente, un "rapcoreggiante", che a 3:16 fa letteralmente staccare la testa dal collo quando esplode nella ritmica sincopata tra batteria/synth e voce con e allora sto tra detenuti / Non da me temuti / Voglia di elevare i contenuti / Scale che non si permette Muti / Prevedo futuro, Baba Vanga / Decedo sicuro, pala vanga / Porto nelle vene tanta rabbia / Non so contenere la valanga.
Chiedo scusa per la prolissità, ma in un album in cui i testi sono il vero corpo dell’opera, qualche specifica e citazione erano necessarie. Il livello musicale è qualitativamente più che accettabile con scelte stilistiche e vari e piacevoli cambi di ritmo e dinamiche. C’è sicuramente del pop (“L’infinto”, “Autoipnotica”), ma anche del rapcore (“L’uomo che premette”), dell’elettrorap (“Minimoog”), del classico hip-hop (“Forever Jung”, “La caduta di Atlante”), ma anche una punta di dance (“Prosopagnosia Sia!) ed un pizzico di folk (“Il testo che avrei voluto scrivere”). Sintetizzando: io di certo non mi sono annoiato a sentire questo lavoro.
Ritengo che sia veramente un artista di grandissimo pregio per lo stivale nostrano.
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