Falsa esordiente nel 2019 con il suo album “Pang”, prima pubblicazione non sotto pseudonimo in una carriera di autrice, compositrice, vocalist e produttrice di quasi quindici anni, Caroline Polachek era riuscita all’epoca a generare un discreto hype intorno al suo nome, soprattutto nei circuiti più esigenti della stampa musicale, che ne aveva elogiato la scrittura pop e la meticolosità con cui era riuscita a costruire un sound a metà tra l’organico e il cybernetico, il tutto condito da una cura per l’immagine certosina, con cui si era cucita attorno un immaginario pregno di realismo e misticismo molto particolare e personale. In pratica, con queste premesse le strade erano due: rilasciare un seguito solo discreto che facesse parlare ancora di nuova promessa del pop alternativo a stelle e strisce, ma con molto meno entusiasmo rispetto a prima, o fare definitivamente il botto. Con una sicurezza che fa paura, Polachek ha intrapreso la seconda con “Desire, I Want to Turn Into You”, disco che ha fatto gridare al capolavoro praticamente chiunque e che l’ha cementata come uno dei nomi più interessanti dell’attuale scena musicale.
E così l’hype che circondava il suo nome, invece di sgonfiarsi, è cresciuto a dismisura ed effettivamente, disco alla mano, è difficile contraddire tutto questo entusiasmo perché fondamentalmente è quasi impossibile trovare un altro artista emergente che abbia la stessa conoscenza e padronanza dei propri mezzi dimostrata da Caroline Polachek. Alla lunga esperienza come cantante e musicista, maturata prima nei Chairlift e poi nel progetto solista Ramona Lisa, l'artista aggiunge infatti una fame di suoni e stimoli musicali che si traduce in un album onnivoro e poliedrico, in cui nella stessa scaletta si susseguono l’hyper-pop di "Welcome to My Island", la dance industriale di “I Believe” e il canto da sirena gitana di “Sunset”, senza farsi mancare una bella sbornia di percussioni tribali e cornamuse in “Blood and Butter”, che sembra uscita direttamente da “The Sensual World” di Kate Bush. E la montagna russa di influenze e generi toccati continua, tra arrangiamenti calibrati con precisione e un’attenzione alla melodia capace di produrre sia pezzi estremamente orecchiabili, sia veri e propri flussi di coscienza in musica (vedi il trip-hop di “Pretty in Possible”), senza farsi mancare un paio di ospitate d’eccezione (“Fly to You”, in compagnia di Dido e Grimes) e qualche episodio più intimista (le splendide “Hopedrunk Everasking” e “Butterfly Net”). In tutto questo, torna prepotentemente quel mood a metà tra l’onirico e il futuristico che aveva fatto la fortuna dell’esordio, ma che qui ne esce ulteriormente rafforzato e qualitativamente vicinissimo agli episodi migliori della carriera di Imogen Heap, con cui Polachek condivide parecchi spunti nella ricerca musicale e vocale. Paradossalmente, però, proprio la sua voce è qualcosa di a suo modo unico e originale: Caroline infatti, oltre a essere una delle poche portatrici sane di autotune, è dotata di uno strumento duttilissimo, in grado di intrecciare country yodel, canto moderno e una discreta padronanza dei registri più alti (che in alcuni casi sfociano addirittura nel canto operistico) per un pastiche che sulla carta può non avere senso, ma che all’ascolto si rivela elemento essenziale dell’intelaiatura sonora delle sue canzoni. E alla fine il punto di forza del disco è proprio questo: come per il suo stile vocale, Polachek prende un po’ tutto quello che le piace o che trova musicalmente stimolante e lo innesta nelle sue composizioni, ma lo fa con una visione d’insieme talmente solida che anche le intuizioni potenzialmente più fuori luogo acquisiscono invece un loro preciso senso di essere all’interno del corpo generale; una sorta di mostro di Frankenstein su cui però è stato fatto un lavoro di rifinitura tale che le cuciture che ne tengono insieme le parti sono pressoché invisibili.
Se poi Caroline Polachek sarà davvero in grado di tracciare il sentiero su cui si muoverà la musica pop dei prossimi anni, francamente, mi pare presto per dirlo e qui, forse, si può effettivamente porre un minimo di freno agli entusiasmi manifestati finora dalle riviste di settore, che sembrano voler fare a gara a esaltarla con elogi sempre più funambolici ed elaborati. Sta di fatto, però, che ci troviamo di fronte a un disco solidissimo, quasi perfetto dall’inizio alla fine e con pochissime sbavature, in grado come pochi di coniugare fruibilità e ricercatezza e di collocarsi, effettivamente, in una bolla musicale tutta sua, il che già di per sé non è poco. Spetterà proprio a Caroline non farla esplodere, ma se le premesse sono queste c’è da essere quantomeno fiduciosi.
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