Tokyo, Febbraio 1982.

Le luci sono ancora soffuse mentre l’audience aspetta, in religioso silenzio, l’ingresso di quattro giovani musicisti che in poco meno di tre anni sono riusciti a divenire il simbolo della nuova generazione jazz fusion nipponica. Portano il nome di una costellazione - storpiato dal Giapponese - e sono sponsorizzati dal colosso dell’industria Yamaha, che fornisce loro tutta la strumentazione e la tecnologia musicale più avanzata disponibile al momento. Il prestigioso Bunka Kaikan Hall è la location scelta per due serate consecutive (23 e 24 Febbraio) il cui obiettivo primario consiste nel registrare dal vivo il meglio di quanto la band abbia prodotto nella prima fase della loro carriera.

E l’attacco di “Take Me” non poteva essere un’introduzione migliore al sound elegante e mellifluo dei Casiopea. Dominato dalle tastiere di Minoru Mukaiya, è un pezzo solare e rilassante che rimanda a pomeriggi passati in spiaggia a sorseggiare cocktails in bella compagnia. E’ proprio questo uno dei tratti tipici delle sonorità fusion made in Japan: musica che funziona benissimo come sottofondo in un villaggio vacanze, ma che ad un’analisi più attenta rivela una costruzione e composizione formale di prim’ordine. Il basso corposo e slappato di Tetsuo Sakurai viene ben integrato da una chitarra fluida e pulita, che provvede contrappunto agli onnipresenti, ma mai invadenti, sintetizzatori. E’ proprio il chitarrista, padre fondatore del gruppo, a prendere le luci della ribalta nella traccia successiva.

“Asayake” introduce infatti il talento di Issei Noro, guitar hero dalle capacità tecniche e sensibilità musicale di altissimo spessore. Questa è jazz fusion con una dose pesante di funk, un crescendo incalzante che culmina in un assolo di chitarra incredibile, che dimostra tutte le doti tecniche del nostro giovane - allora venticinquenne - frontman, dallo sweep picking al tapping, sempre al servizio della melodia e mai per puro esibizionismo.

Sicuramente il Giappone non è il primo paese che viene in mente quando si parla di generi musicali considerati prevalentemente “occidentali”. Eppure basta fare una breve ricerca per rendersi conto di quanto questa nazione si stesse guardando intorno e cercasse di aprire le frontiere - e la propria mentalità ultratradizionalista - ai grandi del rock, del jazz, del funk, della fusion. Il Giappone degli anni’70, al massimo del suo status di potenza mondiale, guardava all’Occidente con ammirazione, ma anche invidia. Se loro possono farlo, possiamo farlo anche noi, e pure meglio. E si sa che i giapponesi mirano alla perfezione, non di meno.

Probabilmente è questo uno dei motivi per cui l’ultimo membro della band ancora da introdurre possa essere considerato un esempio di dedizione fuori dal comune. Akira Jimbo, batterista e percussionista, autentico binomio di precisione e fantasia con impensabili influenze latine - che espanderà considerevolmente nel corso della sua carriera - aveva cominciato a praticare lo strumento soltanto cinque anni prima. Il suo assolo in “Domino Line” mette in mostra tecnica e senso del groove, e il suo lavoro in tutte le tracce è semplicemente ineccepibile, formando con Tetsuo Sakurai una sezione ritmica davvero impressionante.

La scaletta alterna brani aggressivi e incalzanti come "Time Limit" ad altri più rilassati e spensierati come “Tears of the Star” e “Midnight Rendezvous”, vero e proprio cavallo di battaglia del gruppo, tratto dal primo album in studio risalente al 1979. L’infuenza di gruppi come Mahavishnu Orchestra, Bruford, Brand X è apparente, ma si combina perfettamente con sensibilità melodica e scale tipiche della musica orientale. Qualcuno può arguire che certi passaggi possono risultare, alla lunga, stucchevoli, ma bisogna tenere conto che è una caratteristica tipica della musica e cultura giapponesi. I Casiopea riescono, miracolosamente, a unire Oriente e Occidente senza snaturare entrambi.

La qualità della registrazione è molto alta, e non nascondo che questo è sicuramente dovuto a una buona dose di post-processing in studio, come era di norma fare all’epoca. Non penso che ciò diminuisca l’energia e la spontaneità dei brani, e la resa sonica che ne risulta ripaga ampiamente qualche angolo troppo smussato.

In conclusione, Mint Jams è un’ottima introduzione alla jazz fusion nipponica e un album obbligatorio per tutti gli appassionati del genere. L’esecuzione è perfetta e l’energia che il gruppo sprigiona in sede live rende la maggior parte dei brani superiori rispetto alle versioni in studio. Un piccolo gioiello che consiglio di ascoltare abbinato a buon whisky, magari un Miyagikyo, o un Suntory... Kanpai!

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