Cosa rende un pezzo pop, radio-friendly, un gran pezzo?
In genere la melodia accattivante, un motivetto che ti entra in testa, a volte anche sciocco. Ma quando in radio salta fuori un certo signor Isaak, rivaluti i tuoi preconcetti.
Fine anni 80, chiaro, non è ancora esplosa la rinascita del rock con la R maiuscola, la new wave va perdendo colpi e le chitarre assumono un certo nuovo fascino. È l'avvento di Wicked Games.
Un'introduzione lasciata alle note pulite e fluide che ti conquista, una voce suadente che canta un amore difficile in un contesto di crudeltà, ma con un senso di abbandono che non passa inosservato.
Isaak si rifà alle classiche torch songs in stile Elvis (ha persino eseguito numerose cover di Can't help falling in love) ma non è un imitatore. È un crooner d'altri tempi, un soul singer di quelli che ne nascono uno ogni cinquant'anni.
Wicked Games traduce il verbo sognare; non capisci se ciò che hai attorno e ciò che provi facciano parte di una fantasia o siano l'esatto opposto, un incubo.
Perché se da una parte Chris esalta la figura della sua amante come salvezza da un mondo ostile,
(World was on fire, no one could save me but you)
dall'altra osserva uno scenario crudo e ostile rappresentato dalla sua paura
(No, I don't wanna fall in love with you ... This world is only gonna break your heart).
Come spesso accade nella musica, la malinconia espressa riesce a creare qualcosa di sublime che ti fa pensare a quanto il dolore sia fondamentale per trovare la bellezza.
Il rituale eterno a cui sei sottoposto, che tu voglia o no.
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