Dashiell immerso con i calzoni umidi tra le lavande di mare,
disteso tra i salici ridenti della Camargue strillava
“ Ho una Chrysler rosa in fondo al cortile , non si guida più ma è lì che ci faccio l’amore “.
Leggende canterburyane, alcune e poche scolpite nella lavica roccia e molte altre dissoltesi in fumi di mescalina, provincialmente bisbigliavano di quella fuoriserie furtivamente sequestrata dal parcheggio di una fatalissima Barbie, quella base mobile e culla di quei pensieri fondamentalmente distratti e vaudeville di Daevid Allen, il suo padroncino di casa Robert Wjatt e quel biondino di Kevin Ayers.
Eh si, semiaddormentati, diciamo così, in quel villaggio degli artisti a Maiorca sopito tra le montagne di Deià, tra quelle antiche mura e cinto da torri di guardia per difendersi dai pirati prima e dagli yuppies ferragostani poi.
Quel villaggio che Daevid ammise di aver immaginato in reveries “ arabesco e lussurioso” quando era ancora un bimbo a Melbourne, affascinato dal babbo pianista e prima di prendere la folgorazione per Sun Ra.
Perché la schiuma densa e vischiosa di quel mare, che bagnava Atona Beach a Melbourne, Cala de Deia a Maiorca e Piémanson Beach ( ! ) in Camargue era non solo fitoplancton avvolgente ma surtout siero magico e scilla marina in grado di raggirare e burlarsi delle burocrazie del pensiero, in grado di tessere trame armoniose e capillari, una percezione artistica ed a tratti anche impervia, quella infinita ricerca di sé armoniosi nei contenitori e inserti dell’anima.
Nel 1971 Daevid Allen con una parte dei suoi amici di avventura e Robert Wyatt, Nick Evans e Pip Pyle, realizzerà “Banana Moon”, una one shot elettrica e selvatica, uno stravagante e colorato cartoon musicale emerso alcuni anni dopo aver lasciato i Soft Machine ed all’alba di quel nuovo viaggio cosmico tra costellazioni hippie e astronavi spaziali a forma di teiera che erano l’universo Gong . Poi come dice il titolo del loro doppio live “ Gong est mort, Vive Gong “ Allen lascerà anche questa band, annoiato dalle pretese della Virgin, ma questa è un’altra storia. In apparenza, anzi direi con mente sobria ed elastica, dopo aver attentamente valutato quello studio di fattibilità del superbonus 100 e 10 del geometra Pincopallo sul condominio di Vattelapesca, dopo essere andati in visibilio per quel triple axel della nostra APE di cotanta grazia ed estasiati da quell’imperioso stacco di reni sulle note di Ravel, ascoltandolo bene questo “Banana Moon” suonerebbe più come una raccolta di nobili cianfrusaglie, sconclusionati outtakes che per un motivo o l’altro non potevano andare a nozze con i Gong. Ma pensiamo di evitare di tirare in ballo tutti quei composti della dietilamide, che tra l’altro sono originati, ma guarda un po', da quella schiuma di scilla marina...perché magari non si ha più l’età o magari perché quando si aveva l’età, non c’erano invece il fisico o quella testa. Adagiamoci invece e semplicemente su quelle note floreali di rosa e viola, su quel colore di quel vino rosso e rubino, su quel sentore fruttato di vigna, di lamponi, noce moscata e pepe nero, accompagnati ad aromi boisé di tabacco tostato e vaniglia. Ecco che d’incanto, inebriati da quel profumo di quel tannino giovane in età, improvvisamente da quell’ insieme frastagliato come un fiordo di brani, suoni e strimpelli si entra in modalità freak e si palesa un sottilissimo fil rouge che ci prende per mano ed attraverso quella pericolante scala a chiocciola ci porta al piano di sopra, dove si scherza, si ride, si balla con il primo album solista di Daevid, il più psichedelico e sgangherato dei suoi. In quel piano superiore, siamo al limite dell’agibilità e ne sono tutti da anni consapevoli, ma forse per questo sono ancora più divertiti del fatto, da quell’idea di poter precipitare da un momento all’altro, ma tanto loro sanno che la faranno franca ancora una volta.
“Ci sono tante ma tante idee, in quell’accozzaglia di brani dell’album, ma tutte quelle idee non si potranno mai possedere, è questa la regola del gioco, ci si può solo sintonizzarsi pro tempore, alcuni le possono annusare prima di altri nella brezza. Forse ottieni un po' di credito, ma nella realtà non ottieni nulla, perché quando diventano popolari tu hai già perso interesse e sei passato a qualcos’altro”. Ed è anche inutile che il duca Bianco, anni dopo citi l’album come uno dei suoi preferiti di tutti i tempi e addirittura come invisibile precursore del glam rock, perché esiste una eterna differenza tra l’ essere anticipatori e squattrinati come Allen ed opportunisti mestieranti come altri.
E se qualcuno infine , inebriato o meno da quell’aroma di tannino giovane in età dovesse mai per caso imbattersi nell’ascolto dell’album, consiglio di soffermarsi sulla splendida versione di “Memoires” scritta dal bassista dei Mk II Softs Hugh Hopper, che risale alla band seminale di Canterbury “The Wilde Flowers”, dove Gary Wright fornisce una parte di pianoforte sottile e di supporto. Oppure decidere di farsi ammaliare dal torpore consapevolmente decadente di "White Neck Blooze", quell’ omaggio ironico a Kevin Ayers ed al suo stile vocale tipicamente assonnato e baritonale.
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