Il doom metal oggigiorno è diviso in una miriade di sottogeneri non sempre all'altezza, anzi spesso si assiste ad una strana competizione tra gruppi: vincere la coppa del suono lentissimo e iperdilatato ( o involuto, a seconda dei punti di vista), con il risultato di annoiare l'ascoltatore più paziente ed avvezzo. Non che siamo di fronte ad un capolavoro, beninteso, ma "The Hundredth Name", primo full lenght targato Demon Lung, apparso nel 2013 dopo il discreto EP "Pareidolia" dell'anno precedente, ci restituisce un doom massiccio e sulfureo. Di base a Las Vegas, i nostri cavalcano un sound nel solco della tradizione rispettando le regole del genere, ma la loro proposta è basata su testi e riffs che appaiono migliori della media odierna; la sezione ritmica sembra registrata in una grotta profondissima, mentre le poderose parti di chitarra ci immergono in un'atmosfera da rituale sabbatico, già evidente dai titoli delle composizioni, fragorosamente di marca satanica. Ma l'arma segreta degli americani è Shanda Fredrick, singer donna, poco comune in ambito metal, ma che dona alla band una marcia in più: voce salmodiante ed evocativa, ma allo stesso tempo tanto robusta da poter essere scambiata per quella di un uomo: la performance ricorda da vicino quella di Christian Lindersson dei Count Raven, con un cantato che davvero rende fangosamente tenebroso l'intero lavoro.

Non mancano momenti davvero notevoli: l'opener "Binding of The Witch" si apre con quattro minuti di drone inquietante ed ammonitore, la sabbatiana "Devil's Mind" possiede un incedere che difficilmente si dimentica, "Eyes of Zamiel" mosta le cupe qualità canore della Fredrick, mentre "Hex Mark", dal ritmo relativamente più veloce, rappresenta una sorta di tregua al monolite opprimente architettato dal monicker statunitense, con l'aiuto non indifferente di Billy Anderson, produttore di Sleep, Melvins e Neurosis; tastiere, organo e spruzzi di chitarra acustica suonano in modo discreto, ma concorrono a completare le particolari vibrazioni che l'album emana. Tuttavia la seconda metà di "The Hundredth Name" perde lo smalto e la creatività dell'abbrivio iniziale, mostrando debiti palesi verso Candlemass, Saint Vitus e Pentagram e non brillando certo per originalità; nonostante i difetti, il tentativo di Shanda e compagni di cercare all'interno di un genere difficilmente rinnovabile un percorso personale, senza cadere nella trappola della riproposizione monocorde insita nel doom stesso, resta apprezzabile e maggiormente riuscito rispetto a prove coeve di altre band. Il successivo concept "A Dracula" amplierà la componente ritualistica ed occulta del gruppo, virando verso territori acidi e psichedelici; una varietà dunque che promette una maturazione completa ed un'evoluzione verso paesaggi sonori sempre più complessi e stratificati.

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