Basta guardarli in viso per capirne le differenze, osservando la copertina ma anche le foto all'interno: Doug Dillard, sfrontato e rossiccio, smilzo e dalla bocca troppo larga, più larga della faccia stessa, è un perfetto ragazzotto di campagna. Gene Clark invece, piuttosto che sorridere si limita perlopiù ad ammiccare, lo puoi vedere anche assorto e di profilo, e se la foto è frontale lascia che le ciocche coprano gli occhi. Sembra più che altro la versione country di un new romantic, o di un Brian Ferry.

Una poprock star ed un campagnolo... Berretti in pelle alla Marlon Brando, sidecar... Clark è semplicemente fichissimo, fosse stato a torso nudo, magari coperto da un solo gilet in pelle, avrebbe fatto invidia al Morten Harket più in palla... Doug Dillard  con quel copricapo è ancor più improponibile, anche perché sotto quella visiera lo puoi vedere sghignazzare come al solito, e le orecchie a sventola i berretti le risaltano, le risaltano eccome!

Chi è Gene Clark lo si sa. Doug invece è un talentuoso chitarrista e suonatore di banjo, ed il leader della band a conduzione familiare The Dillards. Con essi suonava country  contemporaneo sin dal 1963. Il mese di uscita di questo lavoro di coppia, invece, è l'ottobre del 1968.

I Dillards avevano pubblicato qualche mese prima il loro quarto disco, "Wheatstraw Suite". Nello stesso anno, la band che Gene Clark dovette lasciare, i Byrds, diede vita a due capolavori: "The Notorious Byrd Brothers" a gennaio, e "Sweetheart Of The Rodeo", con Gram Parsons, a luglio. Quest'ultimo, Parsons, era già al secondo disco ed alla seconda band. Ed a febbraio del '69 sarebbe stato al terzo con la terza band. Il tutto, converrete, è mostruoso.

In questo andirivieni di dischi, in quest'intreccio di nomi e titoli, nel bel mezzo di tutto un susseguirsi di stili e stilemi, ambizioni e visioni, il tipo più rilassato di tutti par essere proprio Gene Clark, il cui esordio solista seguì di "ben" diciotto mesi il suo ultimo lavoro coi Byrds, mentre questo con Dillard è dell'anno dopo ancora. Ed in tempi tanto frenetici, un anno par essere proprio tanto.

Mentre Crosby andava in orbita, mentre Parsons correva verso la fine, mentre McGuinn covava mire di grandezza che manco Roger Waters, ecco Gene che se ne sta in campagna tra i bravi ragazzi, un po' sfigati anche. Occhio però a pensarlo indolente: questo è un disco che arriva solo tre mesi dopo "Sweetheart Of The Rodeo" e quattro prima "The Gilded Palace Of Sin", ed in quella landa di (quasi) nessuno che fu il country-rock dei primordi, "The Fantastic Expedition Of Dillard & Clark" non è un disco di duetti, di rimpatriate, di sessioni semisobrie, di robetta, ma si può considerare come uno dei lavori più monumentali.

Innanzitutto, i nomi. Oltre ai due Expeditionists ci sono i Byrds Micheal Clarke e Chris Hillman. Quindi i futuri Burriti volanti Jon Corneal e soprattutto Sneaky Pete Kleinow... Quindi un certo signor Bernie Leadon, chitarrista di matrice bluegrass che transitò anch'egli tra i Burritos per quindi dare un vita ad un progettino-ino-ino, chiamato Eagles. E se da quelle parti anche il burrito può volare, perché non dar vita ad una band col nome dell'American ‘Byrd' per eccellenza?

A parere di chi scrive, quest'album, senza dubbio meno cosmic american e più country american delle coeve pubblicazioni byrdsiane, può tranquillamente considerarsi superiore alla pietra di paragone "Sweetheart Of The Rodeo", sebbene manchi quell'ampio respiro di certe suggestive esecuzioni di arie epico-western tipiche del Parsons più visionario. Il giudizio appena espresso scaturisce dalla considerazione di vari fattori, il primo dei quali è la scelta artistica: autorato e non covers, a parte che per la giocosa "Git It On Brother", a mio parere per giunta la più debole del gruppo. Gli scritti, perdipiù, non appartengono al solo Clark, sublime autore riconosciuto dalla critica planetaria sebbene non dalle masse: perlopiù, infatti, di mani ce ne stanno altre quattro, quelle di Dillard e quelle di Leadon, che allora forse non figurò in copertina  e non fu effettivo della Expedition perché non ancora celbre, e poi perché di carrozzella il sidecar ne può avere solo una.

L'ascolto della triplice creatività  è semplicemente un soave susseguirsi di perfezioni, a cominciare da "Out On The Side", il più suadente ed espressivo degli inizi. In Mezzo a brani più allineati e coperti ma che non difettano comunque di valore, svettano la dolcissima "Train Leaves Here This Morning", semplicemente un manuale di metrica applicata alla forma canzone, l'intricata e dolente "With Care From Someone", la tensione languente dell'immensa "The Radio Song": un tris di capolavori che stravolgono.

In un placido e rasserenante finale, tra "In The Plan" e "Something's Wrong", suadenti, sentitissime ma distese, il sidecar scorre e porta via con sé le emozioni. Il rock misto al country, infondo, potrebbe essere proprio questo: struggimento e conciliazione, divertimento e malinconia, strafottenza e presa di coscienza, volo pindarico e realismo, senso di onnipotenza e senso di impotenza. Lisergico e liturgico.

Così bello, comunque, e così superiore da poter fare tranquillamente a meno di etichette o di collocazioni spazio-temporali in aree geografiche e periodi storici.

E tu? Se hai di fronte una vecchia moto d'epoca, ancora fiammante, che fai? Ci metti un cartellino davanti con data di messa su strada e numero di esemplari prodotti, o ci fai il giro più lungo che puoi? Che tu abbia il look giusto o la faccia da sfigato, il mio consiglio lo sai.

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